DOCUMENTAZIONE

 

 

02/10/2020

PRIMI CLASSIFICATI PER SEZIONE E PREMI SPECIALI DEL 19° CONCORSO

 

Cerimonia di Premiazione della 19° Edizione del Concorso Nazionale di poesia e narrativa "Vittorio Alfieri"
organizzato dall'Associazione culturale di Volontariato ONLUS:
"La poesia salva la vita"
Hanno partecipato al concorso 230 autori provenienti da molte Regioni d'Italia ed anche dall’Estero.

La giuria formata da docenti ed esperti qualificati.
Si è riunita per deliberare in merito alle valutazioni scaturite dall'esame dei testi partecipanti, giovedi – 10 Settembre 2020 ore 10. E dopo attento esame e valutazione dei tantissimi testi pervenuti. ha deliberato in maniera concorde premiando autori ed opere degne di merito e menzione. La giuria formata da:
Presidente Prof. Davide Ghezzo docente di materie letterarie e latino nei licei, e di scrittura giornalistica per l'università. Ha pubblicato una ventina di volumi tra narrativa, saggistica, poesia e antologie e manuali scolastici, attinenti la modalità fantastica della letteratura, conseguendo numerosi premi e riconoscimenti. Tiene incontri e conferenze sulle tematiche dell'insolito e della spiritualità.
Prof. Claudio Calzone Da sempre appassionato di poesia, storia, musica e letteratura fantastica, Ha pubblicato vari libri di poesie: romanzi e racconti, ha partecipato con un lungo racconto. Tiene conferenze su temi letterari, storici ed esoterici.

Prof. Antonio Lepore – Laureato in lettere moderne, è docente di materie letterarie presso l’istituto Superiore: “A. Castrignanò” di Asti, è docente di letteratura italiana presso l’Università delle tre età di Asti. Giornalista, pubblicista, ha scritto per periodici e riviste specializzate d’arte e letteratura, è autore di libri di poesia, di critica letteraria e d’arte, è direttore editoriale di spettAttore.

Andrea Laiolo – laureato a Torino in Storia del teatro esordisce come poeta con una silloge che vince il premio “Mario Pannunzio” nel 2005. Da allora ha pubblicato varie raccolte poetiche ed opere drammaturgiche. Ha collaborato ad una incisione di musica antica, inoltre si occupa dal 2008 di eventi teatrali e letture poetiche.

Prof. Michele Bonavero – Esperto conoscitore della cultura piemontese, attento alla cura della grafia, docente alla Università delle tre età di Torino.



Ed ecco i vincitori:
La sez. poesia in lingua italiana
4° - classificato - G. Luigi De Marchi di Torino con la poesia : “Notte”
4° - classificato – Ivo Brandi da Ascoli Piceno con la poesia: “maltrattato amore”
4° - classificato - Falbo Roberto da Catanzaro con la poesia : “Catabasi”
4° - classificato – Nicolina Ros da Pordenone con la poesia : “Hevrin Khalaf”
4° - classificato – Francesco Maria Mosconi da Ivrea con la poesia: “ Ospedale psichiatrico”
4° - classificato – Massimo Mezzetti da Roma con la poesia : “A piedi nudi”
4° - classificato – Blasi Fiore di Roma con la poesia : Roma nord
3° classificato – Salvatore Avellino da Foligno con la poesia: “O Virùs”
Motivazione: Coi toni coloriti del dialetto la poesia ci descrive l’epidemia nella sua forza annientante. L’espressività dialettale, di gusto quasi popolare, rafforza un pathos semplice e diretto e riscatta il difficile tema da ogni facile retorica, con un toccante abbandono alla fatalità e al disegno divino.
O virùs

Antrasatto nu bello juorno
ntra capa e cuollo na tempesta:
nu “virùs” a na luntana terra!
Accummenzaje o cuncerto de sirene,
sempe de pressa, notte e jorno;
diece, ciente, mille viècchie
cu dulore chiurene ll’uocchie,
senza lacreme, senz’accumpagne;
ll’urdeme viaggio senza niente,
forze cu na speranza sulamente.
E canta ancora na sirena
ma a voce è sempe a stessa:
è n’ata anema ca se ne và
forze cu nu penziero arriva llà!
Sulo Dio sa sta storia quann fenesce.
O cuorpo abbassa na buatta e cennere
Forze pe ce ricuedà: “Memento homo”.
Traduzione:
Il Virus

All’improvviso un bel giorno
tra capo e collo una tempesta:
un “virus” da una terra lontana!
Iniziò il concerto delle sirene,
sempre in fretta, notte e giorno;
dieci, cento, mille vecchi
con dolore chiudono gli occhi,
senza lacrime, senza accompagno.
E canta ancora una sirena
Ma la voce è sempre la stessa:
è un’altra anima che se ne va
forse con un pensiero arriva lì!
Solo Dio sa quando finisce questa storia.
Per il corpo basta un’urnetta di cenere
forse per ricordarci: “Memento homo”

2° classificato - Iemmi Marco da Varese con la poesia: “Andolla”
Motivazione: Opera che scorre fluida nel canto degli endecasillabi sciolti, a rispecchiare la serenità di un ambiente montano, scenario di un’escursione pronta a catturare immagini e quasi fotogrammi di uno spazio perfettamente estraneo alle brutture, agli stress, alle compulsioni del vivere cittadino.
Andolla

Fissato in fondo agli occhi in verd’essenza
Il mistico del Lago dei Cavalli.
La brezza m’accarezza l’esistenza
e libera la mente ed i pensieri.
Saluti tra i compagni di cammino.
I primi raggi sfrisano le fronde
dei larici, dei pini, degli abeti.
Melodiche campane in lontananza,
si fondono al frusciare dei ruscelli.
Pastori con le gerle stan salendo,
si fermano un momento… sorge l’alba.
Riflessi rosa scaldano il ghiacciaio.
Profumo dello strame ad essiccare,
canzoni di montagna nei torrenti.
La sassaiola attende il mio bastone,
in cima vedo il Passo dell’Andolla.
Rumori di richiami dal rifugio,
incontro arrampicando uno stambecco.
Il vento che accarezza lo scenario,
rimanda effluvi di fiori di campo,
d’alpeggio, di campanule e genziane,
di stelle alpine nate tra le rocce.

1° classificato – Vittorio Di Ruocco da Salerno con la poesia:
“Tornerò a cercarti tra le foglie”
Motivazione: Narrazione eloquente, condotta su un ritmo severo e costante di endecasillabi, di una sequenza di stati d’animo che si fondono con lo scenario naturale, in una smorzata luce crepuscolare, e nella scansione dolorosa e rassegnata di passato e presente, con un’armonia pacata che si distende sui tempi sospesi dell’incomunicabilità, ma balugina anche di elegiaca speranza.

Tornerò a cercarti tra le foglie

Nell’ora prepotente dell’obblio
io tornerò a cercarti tra le foglie
tra i petali fiammanti di un roveto
tremulo come l’aria che s’infuoca.
Certo raggelerai al mio cospetto
quando ti porterò scarno e impietrito
il mio più imperscrutabile sorriso.
Ti chiederai se il vento di una notte
potè cambiare a un tratto il mio cammino
se gli occhi che imploravano perdono
smarrirono per sempre la parola
se perso nelle latebre del tempo
io sopravvissi intanto alla mia sorte.
Ma non avrai risposte dal mio cuore
marcito nel più orribile tormento
scarnito dal dolore e dal rimpianto.
E se vorrai restare nel
a masticare comode certezze
non lascerò che pallidi ricordi
a dondolare nella tua memoria.
Sarà un peregrinare del passato
fatto di nebbie fitte e silenziose,
per te che non sai leggere il presente
sarà la lunga notte della vita.
Io resterò al tuo fianco silenzioso
sperando che sia l’anima a parlarti
a riportare in te l’intatta luce
che svela la più dolce verità.
E non aver paura del rancore
è come un fiocco freddo e primordiale,
lontano dal tuo sguardo indifferente,
già pronto a trasformarsi se lo cerchi
nel più potente brivido d’amore.
Ma se il tuo volto dolce e tenebroso
volgesse in fine in altra direzione
a me non resterà che un’ombra d’ombra
a cui affidare il vano mio destino.

Segnalazione di merito poesia in lingua italiana

Renata Sorba – da Asti con la poesia: “Io vivo”
Susy Sacco - da Asti con la poesia: “ Hai smesso di guardarmi”
Lucia D’Abarno – da Roma con la poesia: “A Laurent”
Grazia Dottore - Da Messina con la poesia: “La voce del silenzio”
Anna Maria Riva da Marene (At) con la poesia: “Ascoltare il silenzio”
Rita Graziani da Novara con la poesia: “Momenti sospesi”
Cantone M. Luisa da Trecate (No) con la poesia: “”Silenzio”

Sez. narrativa in lingua italiana
4° clas. –Francesco Gozzo da– Milano con: “Taigeto”
4° clas.- Maria Teresa Montanaro da Canelli (At) con: “Le mani addosso”
4° clas. – Natale Vulcano da Rossano (Cs) con “Per non morire”
4° clas. –Gabriele Andreani da Pesaro con: “Ti ci puoi specchiare”
4° clas - Eugenio Fezza da Genova con: “La ricerca”
4° clas - Piero Sesia da Torino con: “Cavoli e Finocchi”
4°clas. - Francesco Maria Mosconi da Ivrea (To) con: “Racconto di guerra”

3° clas. Ex - Lucia Lo Bianco da Palermo con: “Le donne lo dicono”
incalzante racconto, declinato al femminile, tutto basato sulla corsa, sul dialogo, sulla socialità e sulla condivisione degli sforzi, a volte ingenua, dell'attività sportiva che si trasforma, inaspettatamente, in un dramma. Oltre al valore letterario emerge un grande messaggio sociale sulla violenza sulle donne.
Le Donne lo dicono

“Vorrei fosse la prima volta” pensava e respirava l’aria del mare mentre i piedi volavano leggeri sul terreno. Il Parco della Favorita! Lo aveva lasciato alle spalle e adesso iniziava la discesa che l’avrebbe portata alla spiaggia di Mondello. Era la sua corsa della domenica mattina, il suo allungo come si dice in gergo, la sua voglia di riconciliarsi col mondo. Aveva corso dovunque ma nessun piacere era paragonabile alle prime ore del mattino dentro quel parco immenso. I sentieri pieni di foglie a volte secche ma in altri giorni umidi di rugiada, il calpestio sul morbido sentiero, i piccoli anfratti che ti riportavano indietro nel tempo, a quel passato storico di governo borbonico fatto di domini e violenze.
Le gambe la accompagnavano e quasi non sentiva l’asfalto sotto i piedi nè avvertiva i passi che si avvicinavano sfiorando il terreno con il loro tonfo sordo e quasi impercettibile. “Vai a Mondello?”, si voltò. Non lo conosceva e sì che di corridori ne conosceva tanti. “Sì”, rispose, con la fiducia che esisteva, quasi regola codificata, tra i runners. “Devo fare 30 km stamattina, ho una gara la prossima settimana”, “Per me va bene”, lui “Se vuoi ti faccio compagnia”. Capitava tra runners, ma proprio voleva star sola coi suoi pensieri. “Ho un passo di 5,5 al km”, sperava di allontanarlo “Il tuo mi sembra più veloce”, “Ma no figurati, mi adatto, non ho gare in vista”. Una sensazione, solo una sensazione. Una sensazione di fastidio e disagio. Una sensazione subito allontanata da quella quantità di cellule cerebrali che proprio non vogliono accettare l’idea del sospetto e della diffidenza. Ecco piazza Valdesi. La spiaggia si apre agli occhi. Niente cabine d’inverno solo mare all’orizzonte e goduria per gli occhi e la mente. Aveva corso in ogni parte del mondo ma nessuno spettacolo riusciva ad alleggerirle l’anima come quel golfo che da Valdesi portava fino alla riserva naturale di Capogallo. Lì era cresciuta, lì bambina aveva visto innalzarsi castelli di sabbia e giochi di onde, lì desiderava riversare gli umori e la linfa del suo esile corpo fino ad integrarsi con le vene che scorrevano sotto i suoi piedi. Lì incontrava gli amici ogni domenica mattina, runners come lei e come lei alla ricerca di una simbiosi con la rugiada e l’aria trasparente della domenica mattina per ricaricarsi di nuovi elementi in grado di affrontare l’asprezza delle ore. Quella mattina di febbraio il sole era ancora indeciso nella foschia all’orizzonte ma avrebbe trionfato caldo al ritorno rendendo il percorso più difficile, soprattutto per la lunga salita da affrontare. “Ciao campionessa!”, il suo amico Rodolfo che la salutava le diede coraggio. Rodolfo! Lo incontrava ogni domenica mattina. Settant’anni ma un fisico asciutto da adolescente, scattante ed argentino come l’acqua di una fontanella. Poteva chiedergli compagnia, così da rassicurarla. “Vieni al Faro con noi Rodolfo? Un allungo insieme, dai! La giornata è splendida.” “Non posso, solo 16 km oggi. Devo scappare o mia moglie mi ammazza”, rise forte. La sua risposta non poteva se non confermare il tono ironico con cui molti amici runners maschi parlavano delle proprie mogli, contrarie all’allenamento dei mariti e sempre pronte ad attaccarli se fossero arrivati in ritardo. “Mia moglie si arrabbia tanto, soprattutto la domenica che per lei è sacra”, le aveva confidato spesso Rodolfo, “Non ci vediamo mai durante la settimana secondo lei e quindi almeno la domenica bisogna stare insieme”. La stessa lamentela era venuta spesso anche da altri amici runners, talvolta accompagnata da invettive e improperi nei confronti delle proprie consorti. Non amava quei momenti e non si sentiva in fondo di biasimare quelle povere donne che non condividevano la passione dei propri mariti e desideravano ritagliarsi solo un piccolo spazio all’interno della loro vita. Le donne lo dicono quando hanno bisogno di attenzione, basta ascoltare il suono delle loro parole. Ne aveva parlato spesso durante quelle lunghe corse fatte di confidenze e riflessioni mentre il corpo fendeva l’aria e sconfiggeva gli elementi per sentirsi ancora parte del tutto. Ma gli amici runners maschi sempre maschi sono e come tali… beh! Come tali poco sensibili! Il runner sconosciuto continuava a starle dietro. “Vuoi proprio andare al Faro?”, “Fa parte del mio percorso di allenamento, ma non devi venire se non te la senti!”, “Ma no, figurati”, mentre parlava il respiro di lui cominciava a diventare affannoso. Ma perché non se ne andava? Intanto cosa poteva fare lei? La strada è di tutti. “Vai spesso al Faro?”, “Ogni domenica”. Il Faro! Esisteva forse un percorso più bello? Dopo la pittoresca piazza della frazione di Mondello si seguiva il breve tratto di lungomare che raggiungeva la rocca detta “La Torre”. Lì la costa sbattuta da onde e flutti si faceva rocciosa e frastagliata, in un mare pulito ma dai fondali blu scuro da far paura. Da lì si giungeva al Faro, due chilometri circa di salita mentre magicamente Ustica si profilava all’orizzonte e ci si sentiva protagonisti di un poema omerico. Nessuno avrebbe potuto meravigliarsi se da un momento all’altro fossero spuntati i giganti! Eppure quella domenica il Faro sembrava irraggiungibile e l’atmosfera era carica di una strana tensione che abitava in lei, foriera di strane e inquietanti sensazioni che non aveva mai provato prima. Sembrava quasi che ogni singolo elemento di quel paesaggio marino si fosse coalizzato per comunicare qualcosa attraverso una indecifrabile foresta di simboli, utilizzando codici criptici di impossibile interpretazione. L’aria si era fatta più cupa e la foschia mattutina che velava il pallido sole invernale non si era dipanata come succedeva di solito ma aveva finito per intristire una domenica che sarebbe stata altrimenti a tinte forti, coi colori accesi del cielo e del mare. Le rocce mantenevano la loro atavica e secolare immobilità attendendo un movimento di onde che tardava però ad arrivare. Non riusciva a conciliare il movimento del suo corpo con la staticità del contesto, privato inspiegabilmente dei consueti profumi forti e odori di alghe stagnanti che, come accadeva sempre durante l’inverno, avevano finito per accumularsi a riva. Da piccola sognava di addormentarsi su quel tappeto di residui marini e di nascondervisi dentro alla ricerca di un suo nido. “Ti piace molto questo tratto?”, il runner sconosciuto sembrava averle letto dentro. “Sì, moltissimo. Fa parte di me. E poi è un buon allenamento per la varietà del percorso e..”, “Sì, ma perché ti piace? Ricordi amorosi? Venivi a nasconderti col fidanzato?”. Il tratto in effetti era conosciuto anche per quello, coppiette isolate che andavano in macchina su, fino al cancello e si incontravano per fare l’amore. Anche lei da ragazza si era “infrattata” qualche volta per sbaciucchiarsi col ragazzino di turno. “Ho indovinato, venivi non è vero?” Non le piaceva il suo tono e la confidenza con cui la trattava. E sì che con gli altri runners maschietti si sentiva libera di conversare come voleva. Perché questo strano individuo la faceva sentire così goffa e impacciata? Non era come gli altri. Perché continuava a desiderare che se ne andasse? Aveva sperato che si spompasse e di proposito il suo passo si era fatto più accelerato, più ritmicamente cadenzato ma aveva finito per stancarsi di più e adesso le doleva il ginocchio. Ma il Faro non arrivava mai? Il tratto si era fatto molto isolato dopo la Torre, i soliti runners avevano preferito un altro percorso quella mattina, forse, o semplicemente non erano usciti per allenarsi.
Giunti al cancello con un balzo si lanciò a toccare l’inferriata, gesto scaramantico comune a chi quel tratto lo affrontava settimanalmente durante gli allenamenti. “Qui di solito ci si ferma per ammirare il paesaggio, a volte si vede Ustica”, “Non si vede granchè oggi”, il suo sguardo faceva un po’ paura. Perché lo notava solo ora? “Se vuoi il percorso continua oltre, scendendo da qui sotto. Si può arrivare fino a uno spiazzo e in lontananza c’è “Isola delle Femmine”. “Perché non andiamo insieme? Così mi fai vedere.”, “Sono un po’ stanca, sai e mi fa male il ginocchio e il percorso è sassoso e accidentato.” “Preferisco andare con te lo stesso, così mi indichi la strada”, “Ma guarda che è facile, non ci vuole molto”, “Ho bisogno che venga tu, ho bisogno che ci sia tu”.
Lo scatto arrivò troppo tardi perché lui non riuscisse ad afferrarle il braccio con una forza inaudita e inimmaginabile. La teneva e la trascinava giù per il sentiero e il ginocchio le faceva male sempre più e non sapeva come muovere la gamba. Inciampando e resistendo e urlando e dimenandosi riusciva anche a trovare spazio per piccoli pensieri e sensazioni. Ad esempio perché non era tornata indietro prima, oppure perché non era risalita con Rodolfo o perché avesse continuato a credere di essere libera di decidere cosa fare di sé e del suo corpo in un mondo ancora da inventare. Gridava e si dibatteva contro uno sconosciuto travestito di pelle umana mentre in lontananza si profilava l’immagine della sua cara Isola che secondo la leggenda aveva imprigionato delle donne, delle femmine. Doveva davvero morire con l’Isola muta testimone della sua fine? Urlava no, no e ancora no e in un angolo ancora lucido della sua mente albergava la consapevolezza di come la storia fosse destinata a non cambiare mai, leggenda dopo leggenda, secoli dopo secoli, in un susseguirsi e ciclico ripetersi delle stagioni. Fu il cespuglio di agave sulle rocce a sentire il suo ultimo no e ancora no mentre un enorme sasso la colpiva ripetutamente. Ma era no. Le donne lo dicono.
3° clas. Ex: - Giovanni Macrì da Messina con: “La crisalide: il coraggio di essere se stessi”
Il racconto in prima persona del dramma di una vita vissuta in un corpo sbagliato. Pur trattando un tema scottante rappresenta con grazia una condizione umana particolare, analizzandola con sapienza e garbo. Molto dettagliato nei particolari, assume una vera e propria funzione sociale, soprattutto alla luce degli ultimi eventi di cronaca.
La crisalide: il coraggio di essere se stessi!
Sono nata maschio, ma sin da bambina immaginavo di essere una femmina! Allora c’era nella mia mente solo tanta confusione, più guardavo il mio corpo e più non capivo cosa mi stava succedendo.
Lo guardavo e ogni attimo della mia esistenza mi rendevo conto che quello che stavo passando non era giusto e che bisognava fare qualcosa per cambiarlo. Ogni giorno, guardando in basso al mio ventre o guardandomi allo specchio vedevo ciò che non doveva esserci. Non so quante volte ho pensato di prendere un coltello e tagliarlo via, fuori dalla mia vita!
Durante l’infanzia la mia fantasia, ricorrente era quella che un giorno, svegliandomi al mattino, mi sarebbero spariti come per magia gli organi genitali: pene e testicoli. Crescendo, inorridivo solo al pensiero che potesse crescermi la barba, una delle tante realtà materiali del mio corpo che avrebbe sicuramente deturpato la donna che era in me.
Chiedevo aiuto per essere la donna che mi sentivo di essere, perché se fossi andata avanti così mi sarei sicuramente, e il pensiero era fervido nella mia mente, ammazzata.
Nessuno ascoltava il mio grido di dolore!
A circa venti mesi e con la capacità verbale di esprimere un’opinione sui vestiti, iniziai a chiedere gonne, vestiti e abiti rosa come quelli delle mie sorelle più grandi. I miei genitori pensavano inizialmente di avere un bambino a cui piacevano i vestiti e il rosa. E quando iniziai a disegnare me stessa come una ragazzina con i capelli lunghi e una camicia fluente, lì, iniziarono a porsi delle domande. Già da prima, quando, mi vestivano da maschietto, reagivo avendo delle forti reazioni e dei comportamenti negativi e anche distruttivi. Mi portarono quindi dal medico di famiglia: il mio pediatra. Lui, ignorante in questo campo, si limitò a dire che mi sarebbe passata e questi miei comportamenti erano dettati dal fatto che, essendo il più piccolo di quattro figli, due femmine, un maschio, il più grande e poi… io, mi sentivo trascurata, viste le attenzioni rivolte a loro e reagivo, per lui, “genio senza esperienza”, con questi atteggiamenti particolarmente strani, bizzarri ed eccentrici. Una cosa detta, gettata lì solo per tranquillizzare i miei genitori.
Non ero un bambino, ero una bambina a cui piaceva il colore rosa, urlavo come una bambina, mi comportavo come una bambina, respiravo come una bambina. Non ero un bambino!
Quando ero ragazzina non facevo altro che sognare di portare eleganti abiti femminili su delle stupende scarpe con il tacco. Ahimè, solo sogni! Di nascosto rubavo i vestiti delle mie sorelle e i loro trucchi e quando in casa non c’era nessuno, mi pavoneggiavo davanti lo specchio della mia cameretta realizzando le mie fantasie, godendo di quei momenti rubati, per essere me stessa, correndo di corsa a rimettermi i miei odiati abiti da maschietto e lavarmi il viso quando sentivo che qualcuno rientrava in casa.
Giocavo sempre di nascosto con le loro bambole e con i loro peluches, giochi che avevano dismesso perché più grandi, correndo a riposarli non appena sentivo un rumore sospetto.
All’età di nove anni iniziai a rifiutarmi di tagliarmi i capelli. Averli corti come tutti i ragazzini della mia età era per me un tormento inesprimibile.
Da quando mi sono dichiarata, all’età di tredici anni e mezzo, tutto è cambiato. Dal rapporto con i miei genitori e la mia famiglia, al rapporto con la società ed i miei coetanei.
Sono purtroppo cresciuta in un contesto familiare totalmente privo di affetto per chi era “diverso” dai loro canoni di vita, un contesto dove l’omosessualità veniva considerata addirittura frutto del diavolo ed un male contro cui fermamente lottare e sconfiggere. Ero ostracizzato anche dalla mia stessa famiglia!
I giorni, i mesi passavano ma nulla cambiava, in me c’era sempre l’ossessivo per loro, necessario per me, desiderio di fare emergere la donna che era prigioniera in quel maledetto corpo maschile cui ero nata. Mi portarono all’Ospedale Gaslini di Genova, pensando che si trattasse, la mia, di una malattia da poter curare. Gli attenti medici coadiuvati da un’equipe di validi psicologi, dopo una lunga e attenta analisi del caso, hanno consigliato ai miei genitori di farmi crescere come se fossi una bambina, provando cioè di dare libero sfogo alla mia effettiva natura femminile.
Facendo quindi la corretta diagnosi di “Disforia di genere”, vale a dire la percezione che ogni persona ha di sé e non di un disturbo mentale che andava curato con psicofarmaci.
“Gender Dysphoria” è il termine che gli esperti di medicina usano per descrivere l’angoscia che una persona può provare quando la propria identità di genere non corrisponde al genere cui è stata assegnata alla nascita. E’ l’infelicità persistente, il disagio per l’incongruenza tra il genere che ti viene assegnato, basato sulla tua anatomia alla nascita, rispetto al modo in cui sperimenti il genere al tuo interno.
Loro, puritani e arretrati, di questa diagnosi, peraltro corretta, non ne vollero sapere proprio nulla. Continuarono a obbligarmi a vestirmi con abiti maschili e standomi addosso come farebbe un avvoltoio sulla sua preda, non lasciandomi mai un attimo da solo. Mi castrarono psicologicamente, non permettendomi più di realizzare quelle piccole mie fantasie quando ero sola a casa davanti al mio specchio con i vestiti femminili rubati di nascosto alle mie sorelle. Per anni non ho avuto la mia collocazione in questo mondo, in quanto a scuola ero sotto incessante bersaglio ed a casa dovevo fare i conti con una famiglia che non sapeva capirmi, accettarmi, consolarmi o aiutarmi.
Sin dalle scuole elementari sono iniziati i problemi con i compagni, che mi prendevano in giro perché mi consideravano un “effeminato”. Anche la maestra, ignorante, addirittura fuggiva da me, mi evitava come se fossi un’appestata.
Con gli anni le cose peggioravano sempre più, non andava nulla assolutamente bene, intorno a me v’era il buio. Io non demordevo però, andavo avanti per la mia via, leccandomi le ferite che ogni volta il comportamento di coloro che mi stavano intorno, mi provocavano, cercando di essere minimamente ottimista, anche se era molto difficile e cercando di vedere una minima luce in quel tunnel oscuro che mi circondava.
Venivo derisa per essere troppo magra, per essere femminile, per non amare il calcio, per essere attratta da come vestivano e si truccavano le ragazze, per voler star vicino a loro e non con i miei compagni maschi, venivo derisa perché portavo i capelli lunghi. Loro hanno sempre deriso tutto quello che potevano pensare su di me in termini di genere e sessualità.
Vivevo la mia realtà da… sola!
A scuola sono sempre stata vittima degli attacchi stupidi dei miei compagni, delle loro illazioni, dei loro risolini, delle loro schernite, del loro non voler capire il dramma che stavo vivendo, dalle scuole elementari fino al quinto anno delle superiori. La scuola è stata per me una lenta angoscia e tortura. Sebbene mi abbia fatto soffrire tantissimo, non per questo non studiavo, anzi mi applicavo ancor di più sui libri cercano nella cultura quella consolazione che non arrivava da nessuna parte, eccellendo in ogni materia per salvarmi dal bigottismo ignorante che mi circondava. Le vicende che mi capitavano, gli episodi di bullismo cui sono stata vittima, hanno lentamente formato in me un costante senso di paura, sfiducia e infelicità, una vita di incomprensioni e isolamento.
Non mi vergogno a confessare che ho pensato al suicidio molte volte durante gli anni dai 14 ai 18, ma sono felice di non aver capitolato a quel pensiero estremo.
Ricordo infatti una vessazione nei miei confronti, quando in terza media, poco prima di compiere quattordici anni, dei miei compagni meschini mi tesero un agguato, stretta fra cinque di loro mi strapparono, fra spintoni e risate, i vestiti di dosso. Uno di questi addirittura, con un rossetto, forse di nascosto preso in casa sua, mi tinteggiò prima tutta la faccia, coprendomi di insulti spregevoli e poi, per ultimo, sputandomi addosso, facendomi tornare a casa in lacrime e con gli indumenti tutti laceri. Non ebbi né la forza né il coraggio di denunciarne il fatto agli insegnanti. Ricordo solo il viso di mia madre, ma anche le botte che mi diede mio padre, in uno scatto d’ira, per essere, secondo lui poco virile nei miei atteggiamenti, per essere… un effeminato. Ho dovuto spiegargli nuovamente, con le lacrime agli occhi, non per il dolore che tutti mi provocavano, quello che ero e che io mi sentivo di essere… una donna intrappolata nel corpo di un uomo. Nella loro mente bigotta penso proprio che, forse ancora adesso, non mi accettano e non mi supportano come dovrebbero fare. Le giornate passavano, come uguali passavano gli anni, nulla cambiava!
Faticavo a crearmi delle amicizie e vivevo in un continuo stato di ansia e di depressione.
Tutti mi emarginavano, finanche in famiglia ero appena appena tollerata. Ho vissuto sia l’infanzia e sia l’adolescenza con grande inadeguatezza, non riuscendo mai a comunicare e ad esprimere le mie sensazioni, i miei desideri, ma anche i miei dubbi e le mie paure. Quando dissi in casa che avrei voluto studiare a Bologna, frequentare l’università per conseguire una laurea in “Scienze della comunicazione”, una laurea triennale, furono ben felici di farmi allontanare dal paese in cui vivevo ormai da diciotto anni.
Sicuramente stando lontano dagli occhi dei paesani, il mormorio che aleggiava sulla mia storia si sarebbe notevolmente affievolito. Mi pagavano la retta universitaria e l’affitto di una stanza in un appartamento che dividevo assieme ad altre tre ragazze. Ho imparato cosa significa trans attraverso internet.
Sapevo come mi sentivo, ma non sapevo che esistesse un termine per questo! Fondamentalmente stavo solo provando a confidare a “Google” quello che sentivo. Una lampadina immediatamente esplose nella mia testa, una lampadina che mi ha spiegato tutti i problemi che avevo avuto fino a quel momento. Cominciai quindi a capire la mia vera identità transgender e capire la relazione tra tale identità e il mio orientamento sessuale. Il perché di tutti quei miei comportamenti, etichettati strani o bizzarri che andavano in contrasto con il mio sesso di nascita.Iniziai quindi a documentarmi in maniera seria del mio problema. Iniziai a contattare un centro che tratta proprio questo disagio di sentirsi inadeguati nel corpo cui si è nati.
Non stavo più nella mia pelle, iniziavo a vedere luce nel buio baratro in cui ero precipitata e dove vivevo sola come un’appestata. Iniziai a documentarmi sulla procedura standard per il cambio di sesso che sarebbe durata anni, preceduta da una diagnosi psicologica, di quella stessa diagnosi che mi avevano fatto al “Gaslini”: “Disforia di genere”. Iniziare ad assumere ormoni femminili sotto la guida competente di un medico, quindi la richiesta a un tribunale per autorizzare l’operazione chirurgica e in seguito, a intervento avvenuto, un’altra istanza ad un giudice per cambiare i documenti.
I centri WPATH (World Professional Association for Transgender Health) cui rivolgersi in Italia sono solamente due: uno a Genova, il DiSEM, e l’altro, il D.A.I. - Clinica Medica e Farmacologia Clinica UOC di Endocrinologia situato presso l’Università degli studi di Messina.
Troppo distanti da dove abitavo! Il più idoneo per me era il centro O.N.I.G. a Bologna, al consultorio M.I.T..
Contattai da subito il consultorio M.I.T. e qui mi fissarono un appuntamento e finalmente potetti parlare liberamente dei miei problemi. Persone umane e comprensive dei disagi che noi transgender proviamo ogni attimo della nostra vita. Intrapresi da subito il percorso necessario, tra sedute settimanali con uno psicologo, uno psichiatra e un sessuologo e quindi inizio della terapia ormonale. Una piccola pillola bianca di “Androcur”, per abbassare il livello di testosterone che avevo in circolo. Una ogni giorno per tre mesi!
Notai da subito una diminuzione della rabbia e del nervosismo che c’era in me, forse un effetto placebo, forse la gioia dell’inizio di quel percorso o forse l’azione antagonista di questo sugli ormoni maschili sortisce tale effetto. Sta di fatto che stavo decisamente… meglio! Stavo vivendo una sensazione di calma e serenità interiore. Avevo dato inizio all’avventura più ardua, ma al contempo più emozionante della mia vita!
Già, dopo trenta giorni di cura sentivo le mie forze affievolirsi, iniziavo a mettere su qualche chilo e il grasso si andava a distribuire nei punti dove io volevo ci fosse: fianchi e glutei. La massa muscolare stava diminuendo, anche se ero di mio già magra! Anche la barba e tutti quegli odiosi “pelacci” che mi crescevano sul corpo che deturpavano in maniera orribile la mia femminilità, andavano lentamente a scomparire, andavano a diventare sottili e radi, dando spazio ad un lieve accenno di peluria. Anche se in programma c’era una dermocosmesi, quali laser o elettrocoagulazione e anche qualche ceretta!
Dopo tre mesi, il medico, mi fece implementare la mia pillolina bianca giornaliera con degli estrogeni per via trans-dermica, un cerotto di estradiolo da 0,4 mg/24h. Tutti farmaci questi, purtroppo, epatotossici. Pazienza! Il raggiungimento dello stadio “farfalla” che era in me, necessitava di tanti sacrifici e anche qualche rischio, altrimenti non avrei mai preso il volo!
Naturalmente prima di iniziare la cura ormonale, dovetti fare tutte le analisi del sangue e solo dopo che queste furono nei limiti… ci fu il via dello starter! Il mio corpo ha risposto da subito, sembrava che non aspettasse altro!
Dopo sei mesi di cura già notavo con mia somma gioia che il mio seno era aumentato da una taglia zero ad una seconda taglia. Non stavo più in me, i primi segni di quella femminilità fisica soffocata, stavano pian piano emergendo. Stavano venendo fuori in tutto il loro splendore. Anche la voce aumentava leggermente di grado e fortunatamente non ho mai avuto prominente il “pomo d’Adamo”… almeno quello!
Ricordo che una volta, dopo il diploma, pronta per iscrivermi all’università di Bologna, dovendomi pagare i farmaci per la mia transizione e i viaggi presso il consultorio, quelli se volevo li dovevo pagar io, andai in un famoso locale della città, dove un mio amico, originario del mio stesso paese, lavorava come cameriere. Presentai il mio curriculum scolastico, un curriculum fantastico, massimo dei voti, cento su cento. Andai vestita e truccata da donna. Sono stata subito intervistata sul posto. Il proprietario mi ha fatto un colloquio dicendomi alla fine che mi avrebbe fatto sapere. Qualche esperienza per quanto riguarda il contatto con il pubblico, l’avevo fatta, minima sì, ma l’avevo fatta. Ero riuscita a trovare un lavoretto nel periodo estivo, nelle vacanze scolastiche, in un paese vicino al mio, dove nessuno mi conosceva. A bordo di un vecchio motorino, che era stato di mia sorella, raggiungevo il bar, con un vestiario unisex, ma truccata da donna, facevo le mie otto ore di lavoro per poi fare ritorno a casa, felice come non mai per quella paga settimanale che percepivo. Naturalmente, nessuno si accorse mai del disagio che vivevo! I giorni passarono, anche le settimane! Alla fine ho chiesto al mio amico se sapeva cosa stesse succedendo. Mi ha raccontato la storia di come il titolare della sede aziendale che mi aveva intervistato gli avesse chiesto, una volta andata via, se io fossi un trans e avuta da questi la conferma facendo una faccia schifata, se ne fosse andato redarguendolo di non presentargli più soggetti come me. Lui poverino non aveva avuto il coraggio di riferirmelo, per non addolorarmi ulteriormente. Mi sono sempre trovata davanti a persone che, in modi differenti, mi hanno scartata a priori. Senza conoscermi né dandomi una possibilità.
Non nego che non abbia pensato più e più volte alla prostituzione, identità che però non sentivo mia. Percorso che per fortuna non ho intrapreso! Era meglio avere un diniego tutte le volte che ho provato a cercar di trovare lavoro, che non sentirmi lercia con me stessa. Era proprio la società che sembrava dirmi che l’unica cosa che potevo fare era quella di intraprendere la via della prostituzione per avere qualche soldo in più per le mie necessità e per avere il calore di una persona, perfettamente consapevole del fatto che quello non era amore. La società che mi stava attorno cercava, infatti, in tutti i modi di spingermi violentemente, in maniera rabbiosa ai suoi margini, ai suoi confini più oscuri.
Quindi per poter pagare le cure per il mio processo di transizione, farmaci spese legali e quant’altro, davo qualche ripetizione privata di inglese, conoscendolo abbastanza bene, avendo messo un annuncio all’università. Accanto alla bacheca, dove erano indicati l’inizio dei corsi e gli orari delle lezioni, era appeso un grande tabellone di sughero su cui erano fissati disordinatamente con delle puntine da disegno dei foglietti con i più variegati annunci: studenti che cercavano una camera da condividere, lezioni private per preparare la tesi di laurea e quant’altro. Affissi anche il mio: Ragazza di madre lingua inglese impartisce lezioni private!
Una parte di questo foglietto lo ritagliai in tante striscioline verticali, dove, su ognuna di queste c’era stampato il mio numero di cellulare. Un paio di ragazzi, effettivamente. si sono presentati, dopo qualche giorno, all’indirizzo della mia abitazione in Bologna. Due ragazze di queste, una volta compreso che io fossi una transgender, sono scappate come se avessi avuto la lebbra, senza peraltro pagarmi le prime lezioni che avevo loro già impartito, un altro aveva confuso la mia disforia di genere con la transessualità nella sua accezione più dispregiativa, e pensando che fossi una prostituta aveva pensato bene, per lui, di provarci spudoratamente con me, mettendomi addirittura le mani addosso. Se non fosse stato anche per le mie colleghe di abitazione, venute in mio soccorso sentitami gridare, non so come sarebbe finita. Sono comunque andata avanti con le mie lezioni private! Mi pongo quindi sempre la medesima domanda: “A quanti di noi sono negati i posti di lavoro? Quanti di noi non sono nemmeno presi in considerazione per un lavoro o sono apertamente respinti di lavorare, in compiti per i quali siamo perfettamente qualificati?”
La prima persona cui ho detto di essere transgender è ora una ex ragazza conosciuta al consultorio M.I.T.. Mi è stata di grande aiuto e ho imparato molte competenze da lei, il tipo di cose che le madri insegnano istintivamente alle figlie e che la mia non ha mai minimamente neanche pensato; trucco, acconciatura, vestirsi. Mi ha dato la sicurezza di uscire in pubblico con lei come… una donna. Una parte di me l’amerà sempre per quello che ha fatto per me. Anche perché quel periodo, il processo di transizione, era una fase imbarazzante, sentivo che le persone erano a disagio con il mio aspetto. Non sembravo un uomo, ma non sembravo nemmeno una donna, e la gente non sapeva a volte, come parlarmi. I miei sogni e le mie ambizioni non hanno mai trovato sostegno nei miei familiari. Anzi proprio la mia famiglia è stata quella che ha sempre ha cercato in tutti i modi di ostacolare il mio percorso prima di accettazione del mio orientamento sessuale e poi di ostacolare la mia volontà di diventare donna. Sono stata sempre da sola, tra umiliazioni, discriminazioni, violenze fisiche e psicologiche, tutte atrocità che avrebbero devastato ed annientato chiunque. Ma la mia determinazione, la mia dignità, il mio orgoglio, la mia sensibilità sono state lo stimolo, la risorsa incomparabile per affrontare le tante avversità che la vita ha voluto pormi davanti.
Dopo il periodo canonico di sedute psichiatriche e psicologiche, mesi e mesi di terapia ormonale, tramite un legale del centro ho fatta richiesta ad un giudice che ha emesso una sentenza a che fosse rilasciata l’autorizzazione all’intervento di “vagino-plastica”. Venni indirizzata per questo intervento presso l’ Ospedale “Federico II” di Napoli, dove il medico chirurgo mi spiegò “step by step”, tutto l’intervento dall’inizio alla fine. Di ciò che mi avrebbe fatto, dove avrebbe tagliato e soprattutto cosa avrebbe tolto. Quell’iter, in sintesi, che va dalla demolizione chirurgica del pene alla vagino-plastica, il tutto con immagini perfettamente chiarificatrici al suo computer. Contavo a ritroso, elettrizzata, i giorni che mi separavano da quell’evento che avrebbe trasformato la mia esistenza: l’avrebbe condotta dallo stadio crisalide, allo stadio farfalla. Il sogno di tutta una vita! Era arrivato finalmente il grande giorno! Pervasa da un misto di paura e felicità, vestita di solo un camice di carta verde e coperta da un lenzuolo bianco, ero fatta salire su di una barella e la flebo con il suo deflussore ancora attaccato al mio braccio destro, poggiata sulle mie gambe, mentre due infermiere, dopo avermi praticato una puntura intramuscolare, mi spingevano verso il mio tanto agognato traguardo. Non stavo più nella pelle! Ero quindi accompagnata in uno stato di semi anestesia lungo i tunnel sotterranei dell’ospedale, tunnel dai muri scrostati e permeati di umidità e tappezzati da grosse chiazze nere e verdi di muffa, fino alla sala operatoria. Non ero del tutto addormentata e potevo sentire i cattivi commenti che facevano le due donne sul fatto che stessi per sottopormi al cambio di sesso. Due donne malevoli e bigotte che non potranno mai capire in cento anni della loro squallida vita, il disagio e il malessere che provavo io in quel corpo di uomo che non mi apparteneva. Non dissi nulla, ormai ero abituata ai sorrisini ironici, alle mezze parole, ai commenti sfacciati e alle cattiverie delle persone ignoranti. Arrivati nella stanza che precedeva la sala operatoria fui accolta dall’anestesista, un bell’uomo alto con in testa un cappellino tutto colorato e vestito di un camice azzurrino, che con fare cordiale e molto professionale iniziò a praticare le procedure per addormentarmi tutta e così poter essere sottoposta all’intervento. Dalla barella mi sostennero per salire sul tavolo operatorio e mentre un infermiere vestito di verde speranza mi aiutava, il bell’anestesista faceva scivolare nella flebo che intanto era stata appesa ad un supporto, il liquido che aveva preparato in una siringa. Con voce tranquilla mi disse, chiamandomi “signorina”, di contare da cento all’incontrario. Già quel tono rilassante e quella parola quasi magica mi condussero in un mondo di beatitudine. Cominciai a contare: “Cento, novantanove, novantotto, novantaset…, crollai in un mondo tutto mio di sogni e di estasi.
Lentamente, dopo circa cinque ore, mi svegliai dall’anestesia, l’effetto di questa era quasi al termine, tutta indolenzita al basso ventre, provai di alzarmi, poi, chiudendo gli occhi, posi il medio e l’anulare delle mie mani sulle palpebre come per tenere dentro di me segregato il sogno della mia vita che si era appena realizzato e da cui non volevo assolutamente svegliarmi. Ero diventata a tutti gli effetti una… donna!
La degenza fu, in quell’ospedale, di circa una settimana. Stavo sempre da sola se non quando veniva a trovarmi una mia amica, anch’essa transgender, che da lì a qualche mese avrebbe fatto il mio stesso intervento. Non so se ella veniva per me o soltanto per sapere cosa si provasse, che tipo e intensità di dolori sopportare. Un volto “amico”, al di fuori del personale sanitario, comunque… c’era! Dopo una settimana, il chirurgo, in sala medicazioni, tolte tutte le garze e il catetere che fino a quel momento avevo tenuto, tolti i punti e il tutore morbido che avevo tenuto per tutto quel tempo dentro la mia nuova vagina, mi diede un specchio per darmi la possibilità di vedere i risultati del suo intervento. Ero emozionatissima! Pensavo di vedere da subito un apparato genitale femminile come quelli che si vedono nei libri. Restai insoddisfatta e soprattutto delusa, anche se non c’era più in mezzo alle mie gambe quell’odiato attributo maschile con cui avevo condiviso venti anni della mia vita! Vedevo solamente un orribile orifizio che non aveva nulla a che fare con ciò che mi aspettavo di vedere!
Il paziente e comprensivo uomo, mettendo amorevolmente la sua mano sulla mia spalla, in segno di conforto, mi disse: “Non disperi signorina! Se lo ricorda? Glielo avevo detto che da subito non sarebbe stata come lei desiderava che fosse! Necessita di qualche ritocco futuro! Dalla prossima settimana dovrà usare dei tutori rigidi a diametro variabile per effettuare delle dilatazioni periodiche e soprattutto per evitare la tendenza naturale dei tessuti a ridurre il diametro e la profondità della cavità che ho realizzato! Stia tranquilla! E mi raccomando una perfetta, quasi maniacale, igiene!”.
Quell’intervento non fu, infatti, l’unico al quale dovetti sottopormi. Lo stesso chirurgo a distanza di due mesi, mi consigliò di fare un’ulteriore plastica per armonizzare e completare le mie parti intime. Un piccolo intervento di modellazione cutanea per ottenere, per quanto possibile, un aspetto riconducibile a un perineo femminile.
Io sono stata fortunata, tutto è rientrato nella percentuale degli interventi pienamente riusciti, non invece a qualche altra amica transgender che aveva fatto lo stesso percorso, avendo dovuto subire una “vagino-plastica secondaria” per fallimento del primo intervento o complicanze che ne hanno impedito la funzione.
Successivamente mi sottoposi pure ad un intervento di “mammoplastica additiva”, poiché la sola terapia ormonale, pur avendone influenzato il volume, non mi dava quell’immagine di femminilità soddisfacente per la mia persona. Feci portare la taglia del mio seno, dalla seconda ad una quarta.
Toccavo il cielo con un dito!
Mancava un’ultima cosa per definire nella sua totalità il mio percorso di transizione: il cambio di nome sui documenti.
Il mio legale ha dovuto presentare una nuova richiesta ad un giudice, che una volta verificata (per mezzo di consulenza tecnica d’ufficio) l’avvenuta modifica dal punto di vista anatomico, ha emesso una seconda sentenza che mi avrebbe, finalmente, permesso di ottenere il cambio di identità all’ufficio anagrafe, come pure su tutti i documenti (carta d’identità, patente e passaporto), a eccezione dell’estratto integrale di nascita e del casellario giudiziario.
Una volta venuta fuori dall’ufficio anagrafe guardavo e riguardavo con gioia e con orgoglio la mia carta di identità nuova di zecca: sopra c’è un nome femminile e la dicitura «studentessa». Che buffo, fino al giorno prima c’era scritto «studente» e un nome da uomo!
Ero finalmente diventata ciò che avevo sin da piccolissima desiderato essere esteriormente! Dentro di me la donna che ero sempre stata, era riuscita a venir fuori dal bozzolo in cui era segregata. La prima volta che tornai a casa da donna e vestita da donna, i miei genitori mi dissero che se volevo stare da loro avrei dovuto indossare abiti maschili o che me ne sarei potuta andare via. Non disfeci neanche il borsone che avevo con me. Me ne andai! Da allora non ho mai più messo piede in quella casa dove son nata e cresciuta. Di tanto in tanto parlo al cellulare con mia madre e chatto con i miei fratelli. Niente più!
Una parte di me è anche piuttosto irritata dall’incapacità della mia famiglia di cogliere questa semplice verità: “Sono sempre io indipendentemente da ciò che indosso!”.
Ho potuto provare su di me, come uomini abietti e infami si siano sentiti in diritto di toccare una figura femminile bypassando il mio consenso, di come si fossero comportati in maniera viscida e ambigua come se noi fossimo una razza inferiore non degni degli stessi diritti che hanno loro.
Purtroppo in prima persona, sulla mia pelle ho conosciuto la violenza psicologica. Quella più violenta, che viene messa in atto da un’intera società a discapito di una piccola minoranza. Ho conosciuto anche la discriminazione sessuale. Ho visto con i miei occhi la differenza degli sguardi delle persone su di me da quando indosso abiti femminili e non nascondo il sentirmi una persona transgender.
Ho sempre pensato che per vivere in questa società, non c’era bisogno di essere un…, e non ho mai pensato di NON essere ciò che ero, cioè una… donna. Ora che il mio corpo è quello che doveva essere sin dal primo momento, sin dal mio primo vagito, ora che l’errore commesso da “Madre Natura” è stato corretto, ora che dalla crisalide in cui ero prigioniera è nata la farfalla che mai aveva potuto volare, ora che sono sotto tutti i punti di vista legali e specialmente “fisici” una… DONNA, una cosa è principalmente importante: quando la mattina apro gli occhi, non sento addosso più i giudizi della gente, né percepisco più il loro disgusto. Sento che c’è un altro mondo che mi ruota attorno, un mondo più luminoso che ognuno di noi dovrebbe sentire attorno a sé, soprattutto con la libertà e il coraggio di essere se stessi e di essere amati semplicemente per quello che si è… esseri umani e non scarti della società, mostri da cui fuggire! Oggi vivo, fortunatamente una bella ed intensa storia sentimentale con una ragazzo. “Lui non mi ha mai avvertito biologicamente diversamente da quello che sono adesso, né si è mai posto il problema per il mio passato. Perché io sono stata sempre quello che sono ai suoi occhi!”. A tutte le giovani ragazze transgender prepotentemente dico: “Mai e poi mai permettete a chicchessia di dirvi che cosa potete o non potete fare! Voi non siete al di sotto a nessuno e sicuramente siete esseri umani importanti! Non fatevi schiacciare dalla disperazione e cercate di mai cadere nell’isolamento sociale! Desiderate con tutte voi stesse di trovare la forza di lottare per raggiungere il futuro cui ambite e soprattutto non fatevi annientare da tutti i NO che riceverete!”
2°clas. Pietro Rainero da Acqui Terme (Al) con: “L’uomo che pescava le fiabe”
un racconto in bilico tra la fantasia e la realtà, che si sviluppa poeticamente nel mondo delle fiabe

L'UOMO CHE PESCAVA FIABE

A Copenaghen c'è una strada che ha lo strano nome di Hyskenstraede, vicolo di Hysken, e perché si chiama così e cosa significa?
Non lo so, ma so che in questa strada, al numero 46, tra due casette rosse, c'era la bottega del vecchio Niels Peitersen, un pescatore di 72 anni.
E ti assicuro che chi transitava per lo stretto vicolo poteva leggere senza fatica, dipinta in color nero sulla porta di legno, lasciata sempre aperta, la scritta “L'antro di Niels” e se incuriosito sbirciava all'interno, poteva osservare il pescatore intento a rammendare vecchie reti da pesca, ormai in disuso. Il vicolo di Hysken, già lo saprai, si trova nel quartiere di Indre By, e dista poche centinaia di passi dal Nyhavn, il vecchio porto della capitale danese, anche se il nome significa Porto Nuovo.
E tutti i giorni a bordo della sua barca, al calar della notte, il signor Peitersen si allontanava dai colorati edifici che cingevano e facevano da cornice alle acque ed alle banchine del vecchio porto e, remando remando, si dirigeva deciso in direzione della costa svedese.
Giunto poi a metà strada tra la sua Copenaghen e la vicina Malmoe, proprio nel bel mezzo dello stretto dell'Oresund, che divide gli svedesi dai danesi, gettava le reti ed aspettava fiducioso. Di solito i primi chiarori dell'alba trovavano le reti del signor Niels gonfie di pesci di ogni taglia e di ogni peso, impigliati nelle maglie. Ma un bel dì, o meglio una bella notte, si presentò al caro pescatore una inaspettata sorpresa!
Insieme a merluzzi, sogliole e passere di mare vide, sgranando tanto d'occhi, una bottiglia ben sigillata, il cui vetro di color verde lasciava però intravvedere, all'interno, un foglio arrotolato.
Il vecchio Niels, assai incuriosito, tolse il tappo e srotolò la carta arricciata.
Il foglio conteneva un racconto, che narrava di una bellissima principessa sirena, che viveva con la sua famiglia nel suo palazzo reale sul fondo dell'oceano e che incominciava proprio così:




La storia era così bella, ma così bella, che il gentile signor Peitersen si disse, fra sé e sé: “la porterò a casa, e la racconterò a mio nipote Haage ed ai suoi amichetti; a loro piacerà sicuramente molto!”.
E così, quel pomeriggio, il nostro amico pescatore non lavorò a ricucir vecchie reti malandate, ma lesse ad alta voce, nella sua bottega, quella stupenda fiaba. Ed il nipotino Haage, ma anche i suoi amici Mathias, Mikkel, Victor ed Astrid, rimasero incantati a bocca aperta ad ascoltarlo ed a immaginar le avventure di quella sirena, di nome Marina.
Qualche notte più tardi, poi, durante la solita uscita notturna per la pesca, al signor Niels capitò di nuovo di trovare, insieme ai pesci, un foglio accartocciato nascosto in un barile di latta.
Aprendo il foglio, questa volta lesse:



Anche questa narrazione, che parlava di una zia che donava molti dolci al proprio nipote quando questi era piccolo, era bellissima. Sapete cosa fece questa volta il signor Peitersen? Avete indovinato!! Portò i fogli a casa, come la volta prima, e lesse di nuovo la storia ai bimbi del suo quartiere.
E, in quello strano mese di novembre del 1875, una volta o due alla settimana, al signor Peitersen capitò di pescar, insieme a naselli, halibut e gustosi salmoni, di pescar ancora fiabe!
A volte riposte in bottiglie, a volte nascoste in bidoni, a volte accompagnate da bottiglie di vino, ed a volte da barili di olio. Le scovava al largo, nel mezzo dell'Oresund, lo stretto che unisce Mar del Nord e Mar Baltico. Gli capitò, una notte, di trovar impressa, in bella scrittura, questa frase d'inizio:




Come finiva la fiaba?! Sapete che siete curiosi? Comunque ve lo svelo: che il corpo senza vita di una piccola fanciulla viene ritrovato il mattino seguente nella neve, con un sorriso in volto e un mazzetto di fiammiferi spenti in mano. Molto triste, ma molto bella, la storia.
Un'altra volta il nostro pescò un testo che incominciava così:



oppure, era già una notte di dicembre:




una volta il testo diceva:




ed un'altra ancora:




e per altre notti il signor Niels continuò a pescare, nel tratto di mare tra Malmoe e Copenaghen, pesci, grandi e piccoli, bidoni contenenti fiabe e bottiglie di buon vino, e pure bottiglie piene di favole.
Per la gioia incontenibile dei bimbi della capitale danese, che sempre più numerosi riempivano ormai ogni pomeriggio la sua bottega, con gli occhi sognanti e lo stupore nel viso.
Ma un brutto giorno sul finir dell'annata, una sera in cui faceva un freddo terribile; nevicava e cominciava a scendere il buio; era anche l'ultima sera dell'anno, la vigilia di capodanno, il caro, vecchio e gentile signor Niels Peitersen si ammalò e morì.
Morì senza vedere l'anno nuovo; smise quindi di pescar fiabe e di raccontarle. Di narrarle ai bimbi che pensavano che lui le inventasse per loro, che pendevano dalle sue labbra sognando mondi lontani, colorati, fantastici e arcani.
Sapete cosa vi dico? Io credo proprio che da quel giorno, da quel brutto giorno, il quartiere di Indre By sia un poco più povero, credo che Copenaghen sia un po' più povera.
Anzi che la Danimarca tutta con l'intera Europa, insieme al Mondo, siano più povere.

Giunto a questo punto, caro lettore, ti sarai indubbiamente già posto una domanda: come mai le fiabe di Andersen (le hai riconosciute, vero?), le fiabe del grande scrittore nuotassero nell'acqua del mare, sigillate in bottiglie in attesa di essere catturate dalle reti di un pescatore, lontano lontano, in alto mare, dove l'acqua è azzurra come i petali del più bel fiordaliso, e limpida come il più puro cristallo. Ma è molto profonda, più profonda di ogni scandaglio.....
Già! Come mai le storie intitolate La sirenetta, La Zia Maldidenti, La piccola fiammiferaia, I cigni selvatici, La principessa sul pisello, Il berretto da notte dello scapolo, La goccia d'acqua, Il brutto anatroccolo ed ancora altre ed altre, fossero finite nell'Oresund, annegate nell'acqua indecisa fra il Mar Baltico ed il Mar del Nord.
Ho altro da fare, ma te lo racconto lo stesso!
Devi sapere dunque che Odense, che si trova sull'isola di Fionia e dove stava la casa di Andersen, è lambita dal fiume omonimo, che sfocia poi più a Nord, nelle gelide onde dello stretto di Kattegat.
E, di tanto in tanto, la località è bersagliata da violenti nubifragi che lasciano cader sui tetti delle sue case, ma anche nei giardini e nei vicoli, enormi gocce di acqua, gocce così grandi che, se viste con la lente di ingrandimento, svelano un intero mondo dentro di sé. Sai certamente che cosa è una lente di ingrandimento, una specie di occhiale che rende tutto cento volte più grande di quello che è.
Proprio durante uno di questi allagamenti, dunque, la cantina della casa del signor Andersen, in via Soendergaard al numero 5, si inzuppò d'acqua, acqua che accarezzò le bottiglie nelle quali lo scrittore era uso custodire al riparo di sguardi indiscreti le sue creazioni ancora inedite.
La stessa acqua non stentò poi a convincere quei bidoni, botti o bottiglie che fossero a seguirla, ed andò a depositarsi, dopo qualche giorno e secondo una consueta tradizione, nello stretto di Kattegat.
Ed ecco perché qualche mese dopo, e quando ormai lo scrittore era morto, il signor Niels Peitersen, anzi ad essere precisi il signor Niels Kasper Peitersen, recuperò quelle bellissime storie che se ne stavano chiuse in protettivi bozzoli di vetro, quasi avvertissero di essere troppo preziose per morire, per scomparire per sempre.
Ed è grazie a lui che oggi tutti i bimbi del mondo, e non solo quelli che sono danesi, possono gustare le avvincenti avventure concepite dalla ineguagliabile fantasia del signor Hans Andersen, anzi ad essere pignoli del signor Hans Christian Andersen.
Da dove viene dunque ciascuna delle sue storie?
Da dove viene la storia? Vuoi saperlo? Ci viene dal bidone, quello con dentro le vecchie carte.....

1°clas. Piko Cordis da Ascoli Piceno con: “Lebensraum”
“ Racconto di ambientazione rinascimentale, con bei personaggi e qualche notevole intrusione nel mondo dell'arte e della filosofia, anche senza omicidi si può interessare il pubblico invadendo il campo della finzione storica”
Lebensraum
-spazio vitale-

Un urlo acuto e inaspettato fece sobbalzare tutti i presenti in aula. Era quello di Severina Scmaglevskaya che non riuscì a contenersi nel fissare dritto negli occhi quegli uomini che le stavano seduti di lato, al banco degli imputati. Un urlo alto che risuonò come una detonazione, percorrendo tutta l’aula 600 dello Justizpalast facendone tremare i vetri delle finestre. Lo udirono in tutta Fürstenstrasse e la sua eco si propagò ovunque nel centro di Norimberga.
Severina aveva gridato per un tempo straordinariamente lungo e mentre la sua memoria era nel passato, nel presente la sua voce aveva finalmente svuotato sé stessa da quella sensazione dell’orrore. Severina, una superstite di Auschwitz, era stata chiamata a deporre contro i 22 gerarchi nazisti, e nel vederli agì senza pensare, mossa dalla repulsione istintiva verso i “demoni del male”. Lo strazio che stava avvertendo era intenso, ma fu proprio quello che non le impedì di fissare i mostri in volto uno a uno. Dopo una pausa fatta di un silenzio pesante e così profondo da sembrare interminabile, con lo sguardo lucido, fisso e rivolto a quei volti senza espressioni; con voce solenne, vibrante, con tono amaro, ma molto decisa, iniziò a parlare.
«In nome di tutte le donne d’Europa, vorrei chiedere ai tedeschi: Dove sono i nostri FIGLI?»
I lineamenti di Severina erano pesanti, contornati da un colorito grigio che rendeva bene l’idea del suo stato di salute ancora molto provato. Del suo essere donna, poco era rimasto, era appena l’ombra di sé stessa. La detenzione del campo di concentramento, gli orrori che dovette sopportare e le atrocità alle quali fu sottoposta erano tutti lì, riuniti nello sdegno della sua espressione e nell’odio sprezzante che finalmente sfogò nella sua domanda. Göring, il delfino designato di Hitler, non le rivolse un solo sguardo arrivando a togliersi gli auricolari dei traduttori per non degnarla neppure dell’ascolto. Gli altri imputati si guardavano le mani, oppure, per evitare d’incrociare sguardi insostenibili, fissavano il soffitto; tra il pubblico e i giornalisti accreditati, la commozione era palpabile e la sensazione di partecipare al grido di dolore era intensa.
Fu la domanda del magistrato militare a Severina a staccare quell’aria greve di turbamento e riportare tutti a un’attenzione desta. «Tra gli imputati seduti, riconosce i suoi carnefici?»
«Sì!», rispose la donna accompagnando la risposta con un cenno della testa. «Ce li può indicare?»
Severina si tirò su la manica della giacca e ne scoprì l’avambraccio sinistro dal quale si poteva ben vedere il numero distintivo tatuatole dai carcerieri. «Guardi, questi eravamo noi tutti: dei numeri. Mi chiede se riconosco i miei carnefici? Ebbene, sì che li riconosco, sono tutti colpevoli allo stesso modo». Il numero a sei cifre spiccava sulla pelle violata dall’indelebile marchio dell’umiliazione umana, fissa tanto sul corpo quanto nell’anima.
«Se la sente di raccontare i fatti che la riguardano?» le chiese il magistrato. Severina si ricompose e accennò ad un sì nuovamente col capo, ma, prima ancora di iniziare a raccontare, abbassò il mento sul petto e iniziò a singhiozzare. «Nel campo della morte, c’era solo una inaudita violenza, non eravamo considerati esseri umani e così, con spregio e senza un briciolo di compassione mi vennero strappati dalle mani i miei figli. Si sono arrogati il diritto di separare le creature dalle loro madri, non una esitazione, non un pentimento, ma solo tanto odio. Ogni mia obiezione veniva punita con uno schiaffo e ogni supplica in nome di una pietà umana era soffocata con la minaccia di una revolverata in faccia. Non ero disperata, ero semplicemente distrutta da un dolore lancinante che aveva una forma inaudita, prendeva tutto il mio essere e lo soffocava, sentivo ogni parte di me come se venisse disintegrata e sventrata. Sentivo i miei bambini urlare, piangevano a dirotto mentre venivano tirati via da me. Fu lì che ho sentito l’odio trasalire e che avvolgeva tutti e ci buttava nella bocca dell’inferno. Il dolore che provai e che ancora vive in me, ecco quello non so descriverlo». Le labbra umide e rugose della donna, sembravano come rozzamente intagliate su di un marmo, però, ogni volta che parlava, queste tremavano vistosamente. «Tutte noi prigioniere eravamo costrette a lavorare all’interno del campo, impegnate in diverse mansioni spesso ripugnanti, lo facevamo con un solo obiettivo, non per sopravvivere, perché sarebbe stato meglio morire, ma solo perché noi tutte speravamo di rivedere i nostri figli. Era quello l’unico pensiero che, nonostante tutto il male inflittoci, ci manteneva ancora vive». Quelle poche parole furono come macigni. Severina additò il ministro per gli affari esteri Joachim von Ribbentrop definendolo “un volgare assassino”; anche il giudice dell’accusa Shawcross, ripeté quell’appellativo più volte durante tutto il processo. Per Göring non usò mezzi termini: “uno sporco maiale”. Durante tutta la deposizione la sua voce era cupa e pastosa, essa saliva e scendeva di tono a seconda della gravità dei passaggi delle varie risposte. Le modulazioni basse riguardavano i momenti più drammatici, mentre quelle alte utilizzate per improvvisi scoppi d’ira.
«Che cosa avete fatto ai miei figli?», ripeté di nuovo urlando ancora, ai gerarchi. «Avete usato il loro grasso per farne delle saponette. Non è così? E neanche delle loro ossa avete avuto pietà, neanche per quelle un minimo di compassione, niente ha toccato i vostri cuori di pietra. Cosa ne avete fatto? Rispondete, ditemi: “Cosa?”. Le avete passate ai mulini mobili, vero?» chiese Severina con tono assertivo, mentre le lacrime le scendevano a dirotto. «Cosa intende dire…?» la interruppe il procuratore britannico Hartley Shawcross, chiedendo in merito maggiori spiegazioni. «Tante vittime, fra cui molti bambini venivano… sezionati. Ne ricavavano del grasso che veniva usato per farne il sapone in appositi stampi e le ossa triturate in macchinari chiamati appunto “mulini mobili”. Maledetti macellai», gridò più forte la donna, quasi a raschiarsi la gola.
A quella macabra, scabrosa, orrenda rivelazione, nell’aula scoppiò una grande indignazione, si sentì un vociare di disgusto per un atto ritenuto tanto feroce quanto inconcepibile dalla mente umana. Tutto l’auditorio fu scioccato da quella ancora nascosta verità e per riportare la calma in aula, il presidente Geoffrey Lawrence dovette battere più volte il martelletto che propagandava così, un suono monotono come una gran cassa.
«Mio Dio!» tuonò Shawcross con giusta indignazione.
Ma Severina non aveva ancora finito di testimoniare quanto l’angosciava e le torturava l’anima, finché non rivelò qualcosa di assolutamente indicibile, di feroce.
«Le creature più ribelli, quelle che piangevano di più, che chiamavano la loro mamma e non la finivano di gridare, venivano buttate nei forni crematori ancora vive; le loro strazianti urla le posso ancora sentire dentro la mia testa».
La sala era a quel punto totalmente violentata nel profondo dell’anima che non riusciva a fare altro che sentirsi attonita, come se stesse assistendo a qualcosa di irreale e solo dopo un po’ si sentì un brusio come di chi si desta impaurito.
Il presidente Lawrence, anche lui visibilmente scosso dalla testimonianza e avendo compreso il grado d’afflizione della donna, le domandò: «Se la sente di continuare?»
Severina alzò lo sguardo verso l’intera corte e asciugandosi le lacrime che le rigavano le guance, rispose con convinzione: «Lo devo fare in nome di tutte le vittime; è per loro che sono qua».
Approfittando della commozione generale, Shawcross prese la parola rivolgendosi alla corte con piglio deciso.
«Come potete ben vedere, qui sul tavolo ci sono ben 2.630 documenti contro gli accusati», disse l’uomo battendo la mano su una pila di fascicoli rilegati, «chilometri di nastri registrati ancora da visionare, e altre duecento deposizioni da ascoltare, ma la testimonianza di questa donna e del suo dolore, li può riassumere tutti. Il suo dramma non è politico e non è istituzionale. È umano». La magniloquenza del procuratore continuò con il preciso obiettivo di voler toccare la sensibilità delle persone. «Perché siamo stati tutti bambini, abbiamo avuto una madre amorevole e la nostra infanzia non c’è stata strappata, violata, come invece questi… signori hanno fatto ai figli di Severina». «Vostro Onore, mi oppongo» urlò uno dei difensori, alzandosi dalla seduta. «L’allusione è capziosa e sottendente una determinata colpa che ad oggi non possiamo ancora attribuire agli imputati». L’obiezione venne accolta e a quel punto Shawcross preferì far continuare la testimone.
«La maternità è il più grande privilegio della vita, ci lega misteriosamente all’essenza del nostro esistere e al frutto del nostro grembo. L’amore per un figlio è infinito, da quando viene al mondo, ogni momento che noi viviamo è legato ad esso; quando lo lasciamo andare sulle proprie gambe, anche allora lo teniamo per mano, senza farglielo notare, perché una mamma non lascia mai il proprio figlio solo». La donna sprigionò nell’aria un lungo respiro, poi continuò: «I miei figli erano speciali, la mia bambina era dolce e socievole, aveva un sorriso per tutti perché il suo cuore era grande. Il piccolino era introverso, ma determinato e tenace, anche lui era tanto buono. Amavano la vita, la loro allegria era contagiosa, erano spensierati, indifesi, così innocenti. Quando i tedeschi ci hanno portato via dalla nostra casa, mio marito è stato malmenato e lo hanno separato da me sotto gli occhi dei bambini che terrorizzati piangevano nel vedere il viso del loro papà pieno di sangue e trascinato come un sacco a terra per il risvolto della giacca. Al campo, poi, mi hanno portato via anche da loro, me li hanno strappati dalle mani. Da quel momento sono morta».
«È incredibile» esclamò ad alta voce Shawcross, approfittando di una pausa di Severina. «Cammino, ma non mi muovo, guardo ma non vedo, sento e raramente parlo, perché non ho voglia di dire nulla, non sono presente a me stessa, vivo come in un’altra dimensione, vivo vicino a loro, con i miei figli e loro vivono in me, sono le loro anime che mi mantengono in vita. Li cerco per toccarli, per sentirne le voci, le urla di gioia, le risate. Vorrei accarezzarli nel loro dormire e trovarmeli accanto nel risveglio per baciarli. Vorrei vederli crescere e capirne i pensieri, spiegargli la vita. Ma questo non è più possibile, ora sono i miei bambini a spiegarmi cosa sia la vita. Mi sono chiesta, nel silenzio delle parole che non mi uscivano, ma nel grido del mio cuore: “perché sono sopravvissuta a loro?” e forse, oggi, finalmente ho compreso. Ora riesco a parlare, le parole conoscono la strada, vanno via da sole ed è arrivato il momento di dirvi che la morte vera è in voi, gente malvagia. Non c’è nulla che vi possa definire; voi non siete persone, non potete guardare negli occhi né me, né nessun altro, perché non avete luce per vedere, non potete comprendere cosa avete fatto perché non c’è amore nei vostri cuori e anzi, non avete neppure un cuore che provi emozione e perciò ogni cosa è inutile da spiegare a voi».
Severina ad un certo punto si fermò, cambiò espressione e con occhi aperti, vivaci e pieni di luce, con un volto nuovo disse: «E ora eccoli, li vedo i miei bambini, mi tendono la mano, quella dalla quale ci avete separati, mi sorridono e mi abbracciano, mi dicono che devo perdonare e non devo odiare, ma solo credere. Credere in loro, credere nell’Amore e sapere che il Male, l’odio, il disprezzo hanno un prezzo alto che dovrà essere pagato da chi lo infligge, da chi non riconosce Dio. Vi stanno guardando i miei bambini, loro vi guardano dritto negli occhi, voi, però, non potete vederli e non perché loro siano morti e voi vivi. No, non per questo…, ma per l’esatto contrario…». Detto questo, gli occhi di Severina vagarono per l’aula cercando una riprova alle sue parole. Le poche donne presenti annuivano mostrandole una compassionevole empatia, mentre gli uomini si dimostrarono più compassati nel condividere il suo dolore.
Göring, invece, i tratti del viso dello “sporco maiale”, con gli zigomi alti e gli occhi maligni, avevano un che di solido e di forte. Autoritario, arrogante e supponente, misurato nel suo crudele orgoglio, si limitò a schifarla con un gesto di stizza.
La conclusione della deposizione della testimone lasciò l’aula sgomenta, Shawcross non tardò ad aggiungere un suo pensiero rivolto alla corte: «Il male estremo possiede profondità infinite nella dimensione demoniaca propagata nell’orrore e nella cattiveria. Auschwitz è il peggiore dei crimini e tace in un silenzio di testimoni muti. Il mondo dopo Auschwitz non sarà migliore». La difesa preferì non porre ulteriori domande alla già provata testimone. La sua deposizione era stata oltremodo dirompente. Il concedo di Severina fu salutato con un applauso da parte del pubblico e dei giornalisti. Uscendo dall’aula, la sopravvissuta guardò per l’ultima volta in faccia gli orribili nazisti; le sue urla, come modalità di espressione dei suoi patimenti avevano dato voce ai milioni di ebrei morti. Le sue lacrime avevano reso visibile le turpitudini dell’oltraggio subito e il sacrificio dei suoi bambini non era più solo un suo dolore.
L’aula era ancora satura d’elettricità quando i 325 giornalisti si precipitarono ai telefoni per informare le rispettive redazioni e mandare in stampa le notizie del giorno. L’impatto umano di prove inoppugnabili portò nell’aula le atrocità di massa: la banalità del male, la fabbrica della morte e le più orride storie dall’inferno.


Segnalazioni di merito narrativa
Isacco Lores da Asti con “Un panaro di racina” (Un paniere di uva)
Emanuele Rizzi da Frabosa Sottana (Cn) con “Schegge di memoria”
Uricchio Caterina da Busto Garofo (Mi) “Il fiorellino imperfetto”
Gabriella Vicari da S. Margherita di Belice (Ag) “Nenè”

Sez Lingua piemontese
Il numero delle opere partecipanti ha subito una leggera contrazione, ma forse questo è dovuto alle situazioni contingenti che hanno stravolto il normale corso anche dei concorsi letterari. A parte un caso, in cui è presentata una grafia al di fuori dei canoni riconosciuti del piemontese, si è notata una discreta padronanza della scrittura, con qualche opera di piacevole lettura. Come forse era inevitabile l’argomento della pandemia è entrato fra quelli proposti, ma questo senza uscire dai canoni di descrizioni in parte influenzate dal bombardamento mediatico e giornalistico. Questo è indice di una vitalità della lingua piemontese che, pur nel sempre esiguo numero degli scriventi, sa cogliere i segnali della realtà che muta nel tempo senza cristallizzarsi in temi nostalgici.
Sez. poesie in lingua piemontese
4° cas. – Fabrizio Sguazzini da Novara con: “Il tempo della libertà”
4° clas. – Massimo Allario da Asti con: “Marco”
4° clas. – Luigi Ceresa da Novara con: “Vigilia di Natale”
4° clas.– Attilio Rossi da Carmagnola (To) con: “Si accende una stella”
4° clas. – Daniele Ponsero da Torino con: “Passi e sogni”
4° clas. – Luciano Milanese da Poirino (To) con: “ Sono già passati 20 anni”
4° clas. – Enzo Aliberti da Canelli con: “L’albero degli stornelli”

3°clas. Livio Rossetti da Novara con : “Un’altra vita”
Motivazione:Tutti, in fondo al cuore, sentiamo il desiderio di vivere un’altra vita come alternativa a quella attuale o come ripetizione del vissuto ma con l’esperienza già maturata. Ovviamente dovrebbe essere una vita impostata alla positività e senza cadere negli errori commessi nel passato. Peccato rimanga un’utopia. Buona la scrittura.

N’altra vita

Am piasarissa vivla n’altra vita,
quasi normala, insì, gnenta dë che.
Riviv moment, cambià magari ij ròbi
che ’ncora dèss im fan pensà… “parchè?”
Gnì sù dal lèt për ved, matina prèsto,
ël sól su cuj montagni ch’i hin là ’n fond.
E peu spetal pasià, a mès’ombrìa,
për rimiral bèl ross int ël tramont.
Caminarissi peu, pussè pé ’n tèra,
su l’èrba quand as suga la rosà.
Sentì col glit liger ch’at dà la tèra
e fermass lì a sognà sul sò parlà.
A scoltà ’ncora ’l cheur a bat bèl fòrt
për col basin intregh e ’n pò sfrosà,
int ona sera calda ’d primavera.
Ma tégnal strencc për pu fàl ëscapà.
I vorarissi ’mà dij bèj moment,
parchè i hin costi-chì ch’it fan stà ben.
Rid e giugà content come ’n fiolin.
Sentiss ël fià liger e ’l cheur seren.
Am piasarissa vivla n’altra vita,
la disi, fôrsi, për fàm gnì coragg.
Për mia rimpiangg pussè col ch’l’è passà
e siguità tranquil int ël mè viagg.
Traduzione:
Un’altra vita

Mi piacerebbe viverla un’altra vita,
quasi normale, così, niente di che.
Rivivere momenti, cambiare magari le cose
che ancora adesso mi fanno pensare… “perché?”
Alzarmi dal letto per vedere, mattino presto,
il sole su quelle montagne che sono là in fondo.
E poi aspettarlo tranquillo, a mezzombra,
per ammirarlo bello rosso nel tramonto.
Camminerei poi, di più a piedi nudi,
sull’erba quando si asciuga la rugiada.
Sentire quel solletico leggero che ti da la terra
e fermarsi li a sognare sul suo parlare.
Ad ascoltare ancora il cuore battere bello forte
per quel bacio impacciato e un poco di frodo,
in una sera calda di primavera.
Ma tenerlo stretto per non farlo più scappare.
Vorrei soltanto dei bei momenti,
perché sono questi che ti fanno stare bene.
Ridere e giocare contento, come un bambino.
Sentirsi il fiato leggero e il cuore sereno.
Mi piacerebbe viverla un’altra vita,
lo dico forse per farmi venire coraggio.
Per non rimpiangere di più quello che è passato
e continuare tranquillo nel mio viaggio.

2°clas. Luigi Camerano da Castelnuovo Don Bosco (To) con: “ La topia”-
Assente perché ospite di una casa di riposo e non gli è stato consentito
il permesso di uscire
A volte c’é proprio bisogno di fermarsi sotto a una «tòpia», un pergolato. Che sia di glicine o di una fragola non importa, ciò che conta sono le piccole grandi sensazioni che vi si possono trovare e assaporare. La «tòpia» è un simbolo ma anche un’isola felice cui è bello approdare per assaporare, con i fiori o le farfalle, il dolce sapore dei ricordi. Buona scrittura e l’impostazione.
Na tòpia

Tòpia ‘d glìcine an fior
aragnà d’amor,
tenduva da lòbia a lòbia
tra doe file ‘d ca,
sla strajòla,
ch’a va a la scòla,
dla borgà . . .
Pavajon verdzin,
a feston ‘d rape viòla,
che ‘l Magg e ‘l vent marin,
fan dësbandì,
për chi a stà là,
o a j ‘ancàpita ‘n dì,
las n’argala la vista . . .
Përfum tranquilità,
buì d’avìe,
lòse sternìe,
d’alëtte piegà,
‘d farfalin-e ametista,
ch’a vòlo giù dosman,
an col’ombrìa legera . . .
O primavera . . .
në strop ëd dësbela,
con la cartela,
doe vòlte al dì,
passa corend sfrandà,
sota coj arch fiorì,
e as n’acòrz gnanca . . .
Ma ‘l vej setà sla banca,
ch’a-j ved passé e a-j conòss,
a sà che coj balòss,
doman, se andran per ël mond,
portran profond an lor,
lë bzògn 'd torné,
a cola cara tòpia an fiòr . . .
manca traduzione
1°clas. Luigi Lorenzo Vaira da Sommariva del Bosco (Cn) con:
“Tesoro santo”
Motivazione: Una disgrazia sfiorata potrebbe essere oggetto di una notizia che ormai non fa più né scalpore né genera emozioni particolari, ma in questo caso l’autore ci rivela degli aspetti reconditi a lui solo noti. Così il fatto in se stesso, andato a buon fine, rivela una serie di retroscena personali che sono esposti con sentimento e in grado di suscitare emozioni. Molto buona la scrittura e l’impostazione che non scade in una lungaggine eccessiva, ma mantiene un’efficacia notevole.

Tesòr sant
(Stòria vera)

I lo seu pro che adess quajdun dirà
« Pòvr òm chiel-sì a davan-a »
pensé a n’afé parèj coma ch’as fà?
Tutun a mi ʼm pias chërde che mia mama
a sia vnùita a troveme sì, ant la neuit,
ma nen an seugn, coma ch’a fan ij mòrt,
nò, a l’ha parlame con sò bel deuit
bësbijand, përché a l’ha mai brajame fòrt,
mach doe paròle sole d’avertiment,
col nòm ch’am piasìa sente, minca tant,
da cit, për sauté giù dal let pròpi content:
« Dësvijte, lesto “Tesòr sant” ».
I l’heu mach sentilo mi, bzògna che amëtta,
ma i veuj contevlo istess, përché ch’am pias,
ansem a col bësbij… pëfum ëd violëtta
che apress a l’é mës-ciasse a col dël gas.
An pressa i l’heu deurbì la fnestra
për peuj smorté col feu sensa la fiama
e a fà nen se gnun am chërd, a mi am resta
la vita che, sta neuit, a l’ha slongame mama.
Traduzione:
Tesoro santo
(Storia vera)

Lo sò che adesso qualcuno dirà
« povero uomo, costui dice cose senza senso »
come si può pensare una cosa così?
Tuttavia mi piace credere che mia mamma
Sia venuta a trovarmi, nella notte,
ma non in sogno, come fanno i morti
no, mi ha parlato col suo bel garbo
bisbigliando, perché non ha mai gridato forte,
soltanto due paròle d’avvertimento,
quel nome che mi piaceva sentire, ogni tanto,
da bambino, per scendere dal letto contento
« Svegliati, lesto “Tesoro santo” ».
L’ho percepito solo io, occorre che lo ammetta,
ma voglio raccontarvelo lo stesso perché mi piace,
assieme a quel bisbiglio… profumo di violetta
che dopo si è mischiato con quello del gas.
In fretta ho aperto la finestra
per poi chiudere quel fornello senza fiamma
e non importa se nessuno mi crede, a me resta
la vita che, questa notte, mi ha prolungato mamma.

Narrativa in lingua piemontese

4° clas. Attilio Rossi da Carmagnola (To) con: “Quel laghetto pieno d’incantesimi”
4° clas. Franco Tachis da Poirino (To) con: “Il sentiero dei ricordi”
4° clas. Enzo Aliberti da Canelli (At) con: “Caffè filosofico”
4° clas. Anna Maria Molino di Piovà Massaia (At) con: “Filastrocca”
4° clas. Maria Luisa Cantone di Treacate (No) con: “Aria grama”

3° clas. Luigi Ceresa da Novara con: “Il vecchio pescatore”
Motivazione: Ci sono persone che fuggono dai contatti umani, però ce ne sono altre che, con l’aumentare degli anni, si sentono esclusi dal mondo che continua a viaggiare con i suoi ritmi. Allora qualcuna di queste persone prende la canna da pesca e va a pescare nel fiume e instaura un discorso con quell’ambiente, altre cercano un’altra via d’uscita. Questa può trovarsi nei luoghi più impensati come in una vecchia fotografia. Un’immagine che offre il soggetto per un’alternativa insperata: un sorriso. Da lì nasce un atteggiamento nuovo, un nuovo modo di affacciarsi al mondo: con un sorriso in cerca di altri sorrisi. Buona scrittura.

Ël vegg pescadó

I sôn rivà a col’età quand i hin pussè ij cavej sul sgiaché che su la tèsta; im senti ’mè s’i fussi ël mè pà-grand; im nascondi drera ij mè rotam. I senti che tut a scapa e che la mòrt la vegna sémpar pussè renta; i speravi, i credevi dë mandala ’ndrera guardandla dë travèrs ’mè ’n domator ch’al ponta ’n liôn, ma i sôn mia bôn dë slontanala e scapà dal girament ch’am fà gnì.
I senti ij mè eucc insì renta la sò ghigna ch’ël mè fià al và su la sò pèl dë cadàvar. Immagonà, igh hò pagura dl’ùltim rantlé, anca s’i sò che col-lì al sarà ël moment pussè important dla mè vita, ël moment ch’l’influirà sul mè temp ch’a gnarà.
Con la facia stralunà, j’eucc succ, i piangi ’mè ’n disperà denta dë mi. Im rendi cunt che con l’età la memòria pòch për vòlta la svanissa e la solitùdin as fà sémpar pussè fòrta.
Ij ricòrd is fan pìcol, lontani ombrii vardà travèrs on canocial girà a l’incontrari, sémpar pussè pìcol e lontan, fin a quand i scomparìssan dël tut. Im dò da fà për dà vita a sembiansi sbiavì coma int ona rapresentassiôn d’antichi lucèrni màgichi.
I guardi inutilment int on ë-spegg opach dova on quai moment i credi dë s-ciarà faci ricognossù e sùbit dismantigà; a më smeja dë nodà int on’aqua lenta, sporca ch’la va giò sensa savé ’ndoa andà. Dasi dasiòt i giri torna dë mi int on top sensa trovà dova pogiam, i cognossi madomà ël vòj dij mè eucc.
Ël silensi dij moment passà, na volta viv e ch’i ’imbalordìvan, adèss am pia ël fià: i canti ël gnenta.
Si: in silensi i canti ’l gnent al gnenta, savend che tra mia tròp temp mi i cantarò pu, i parlarò pu, i sonarò pu.
Tuta la mè vita la smeja vivù da tanto dë col temp da sembrà sémpar pussè sconfondù e quarcià da on vel.
Im senti ’n forèst për tut; la parla la cità, al parla ël fium, i pàrlan ij bès-ci, ma ij sôn, cuj dë gola dij òman ch’i bragàlan o cuj armonios dla natura, i rìvan smorsà, delicà ’mè na mùsica lontana. Sarà sù denta dë mi, i më ’nventi on mond squasi ver scanceland ël confin tra realtà e imaginassiôn.
Int ona sensassiôn dë vòj i cerchi on quaicos ch’al pòda riportà la coscensa al pont dë riferiment dël còrp për podé trovà ancora ël motiv dl’esistensa. Lent penser is córan drera, figuri da mia cred na quai vira ricomparìssan int la ment.
Anca se pèrd la memòria dë chi l’è ch’i sôn fôrsi am farìa stà pussè mej, cercanda dë trovà sparlusc dë ricòrd i m’ancali a fà passà vègi racòlti dë fotografij dij mè viagg e i cerchi dë ricognoss paes e parsoni. La fotografìa l’è na ròba ch’as toca, on quaicos ch’ël rèsta për sémpar.
Im mèti con calma, im concentri; im ricòrdi ij nòm dij sit ch’i sôn vist madomà parchè jë legi int ij nòti ch’i sevi scrivù.
Che fadiga! Im senti on vegg-fiolin!
On bèl moment na fotografia am dà ’n trèm. I legi: 2009 Yemen Shihara. As veda, pià da lontan, on òman cont on kalashninkov in spala ch’agh va drera a dò dòni tuti fai sù in dij vel négar ’mè dij scorbasc e con dij gròss vas su la tèsta intant ch’i van a cavà l’aqua ’d na cistèrna. Lì visin dij fiolin e dij fiolèti ch’i gieugan.
Tut int on colp na scalmana, on ricòrd as fà sémpar pussè fòrt. I rivivi ancora col moment-là: dë nascondôn i fò la fofografìa, peu i vò renta ij fiolin, igh regali na brancà dë caramèli.
Ij pussè pisc-nin jë smìcian e peu jë sbàtan për tèra; fôrsi i sàn mia che ròba l’è o ij sò genitor igh han racomandà dë pià gnenta d’la gent ch’i cognóssan mia. Peu i scàpan via dë corsa për ij vìcol dël paes. I ripii ’ndà a spass e int ona stradèta tuta prèi i ’ncontri la pussè granda dë cuj fiolèti.
Anca le la pòrta on vel ch’a la quèrcia tuta lassanda intraved madomà du ugin négar e svigg ch’it bùsgan.
As fèrma ’n moment; la guarda intorno: agh è ninsuna. Int on àtim la tira sù ël vel dadzora dla tèsta e am pica lì on tramento soris content e dols da finì pu. I fò mia a temp a ricambià la sò ugiada che in cinch e tri vòt la scomparissa pussè svèlta dël vent.
I rèsti lì imbabià, stracuntà. Col soris robà a na còstumansa balorda për ricambià ël regal d’on caramlin l’è la sensassiôn pussè bèla dë tut ël viagg. La passa dannai, e d’on bèl tòch, ai belèssi dë Sana’a o ai rovini dë Ma’rib dova la stava la regina dë Saba. Int Ecol moment-lì la realtà a s’ha fai magìa.
Adèss i pròvi dij emossiôn: i medésimi dë cola vòlta-là. I capissi ch’i devi pu dismentigà, ch’i devi viv cont ël present, slongà j’ori; i devi mia avegh la sensassiôn che tut a scapa via dë corsa.
‘Mè on diretor d’orchèstra i pensi d’avegh on cómpit: andà a portà l’atensiôn su ’n repertòri che ’l pùblich l’è mai scoltà.
Igh hò pu nissun dubi, adèss i sò che se i sòrti da cà e d’la mè ànima i devi pu sta lì a guardam intorna, ma i devi partì për la diressiôn giusta, cont on’idea ciara int la ment, sensa dabzògn dë rampigam suj védar. E insì, grassie a cola fotografia e a col ricòrd, i sôn comincià a fissà int j’eucc na quai parsona ch’i ’ncontri int ij mè spassigiadi e… igh fò on soris.
I soridi a chississìa l’incrosia ij mè eucc int j’ofissi, al mercà o dannai dij vedrini. La reassiôn dla gent l’è divèrsa; chi l’è ch’a fà finta dë mia védam, chi l’è ch’al creda che col soris al sia fai për dij àltar parsoni, on quaidun al pensarà ch’i sôn mat ’mè na pola. Però al gh’è chi ’l contracambia cont on soris dols, seren e mi i torni a cà sodisfai e content e i vedi mia ël moment dë sortì për provà ancora a lancià ël fil cont on quai raniscieu.
Si, parchè sensa pagà tèsseri, parmèss e marchi da bol i sôn diventà on pescadó dë professiôn: on pescadó dë soris…
Traduzione:
Il vecchio pescatore

Ho raggiunto quell’età in cui sono più i capelli sulla giacca che quelli sulla testa; mi sento come se fossi il nonno di me stesso, mi nascondo dietro le mie macerie.
Sento che tutto mi sfugge e che la morte si fa sempre più vicina; speravo, credevo di farla indietreggiare guardandola negli occhi come un domatore fissa un leone, ma non sono capace di allontanarla e fuggire dalla vertigine che mi fa venire.
Sento i mie occhi così vicini alla sua faccia che il mio respiro arriva sulla sua pelle cadaverica. Accorato ho paura dell’ultimo rantolo, anche se so che quello sarà il momento più importante della mia vita, il momento che influirà sul mio futuro.
Con il viso stralunato, gli occhi asciutti, piango disperatamente dentro di me. Mi rendo conto che con l’età la memoria poco alla volta svanisce e la solitudine si fa sempre più acuta.
I ricordi diventano minuscole, remote ombre viste attraverso un cannocchiale capovolto, sempre più piccole e lontane, fino a che non si dilegueranno del tutto. Cerco di animare figure sbiadite come in una sequenza di antiche lampade magiche.
Guardo invano in uno specchio opaco dove a tratti credo di scorgere visi riconosciuti e poi subito dimenticati; mi pare di nuotare in un’acqua lenta, torbida che scorre senza una meta.
Piano piano giro su me stesso in una tenebra senza trovare appigli, cosciente solo del mio sguardo vuoto.
Il silenzio delle immagini vissute, un tempo vive ed assordanti, ora mi toglie il respiro: canto il nulla. Sì, canto in silenzio il nulla al nulla, sapendo che tra non molto non canterò più, non parlerò più, non suonerò più. Tutta la mia vita appare vissuta da così tanto tempo da apparire sempre più confusa e velata.
Mi sento estraneo a tutto; parla la città, parla il fiume, parlano gli animali, ma i suoni, quelli stridenti degli uomini che urlano o quelli armoniosi della natura, arrivano smorzati, delicati, quasi una musica lontana. Chiuso in me stesso ricompongo un mondo quasi vero cancellando il confine tra realtà e immaginazione.
In un senso di vuoto cerco un qualcosa che possa riportare la coscienza al punto di riferimento corporeo per potere ritrovare il senso dell’esistenza. Lenti pensieri si succedono, fotogrammi incredibili a tratti ricompaiono alla mente.
Anche se perdere la consapevolezza di chi sono forse mi farebbe stare meglio, nel tentativo di ritrovare barlumi di memoria decido di sfogliare vecchi album di fotografie dei miei viaggi e cerco di riconoscere luoghi e persone.
La fotografia è un oggetto tangibile, un qualcosa che resta per sempre. Mi rilasso, mi concentro; ricordo i nomi dei paesi visitati solo perché li leggo nelle didascalie che avevo scritto.
Che fatica! Mi sento un vecchio bambino!
Ad un tratto una fotografia mi dà un brivido. Leggo: 2009 Yemen Shihara. Si vede, ripreso da lontano, un uomo con un kalashnikov in spalla che segue due donne avvolte in veli neri come scarafaggi e con grossi orci sulla testa mentre vanno ad attingere acqua da una cisterna. Lì vicino un gruppo di bambini e bambine che giocano. All’improvviso un lampo, un ricordo diventa sempre più forte. Rivivo quel momento: di nascosto scatto la foto, poi mi avvicino ai bimbi, regalo loro una manciata di caramelle. I più piccoli le guardano con curiosità e poi le gettano a terra; forse non sanno cosa sono oppure i loro genitori hanno raccomandato di non prendere nulla dalle persone che non conoscono. Poi scappano via di corsa dileguandosi nelle viuzze del paese. Riprendo a passeggiare e in una stradina tutta sassi incontro la più grandicella di quelle bimbe. Anche lei porta il velo integrale che le lascia scoperti solo due occhietti neri, vispi, penetranti. Si ferma un attimo; si guarda intorno: non c’è anima viva. In una frazione di secondo solleva il velo sopra la testa e mi fa un sorriso incredibilmente felice e dolcissimo.
Non faccio a tempo a ricambiare il suo sguardo che in un attimo scompare veloce come una saetta. Rimango lì impietrito, meravigliato. Quel sorriso rubato ad una regola assurda per ricambiare il dono di una caramella è la sensazione più bella di tutto il viaggio. Supera, e di gran lunga, le bellezze di Sana’a o le rovine di Ma’rib dove viveva la regina di Saba.
In quel momento la realtà si è fatta magia.
Ora riprovo delle emozioni: le stesse di allora. Capisco che non devo più dimenticare, che devo vivere il presente, dilatare le ore; non devo avere la sensazione che tutto fugga velocemente.
Come un direttore d’orchestra penso di avere un compito: andare a portare l’attenzione su un repertorio che il pubblico non ha mai ascoltato. Non ho più nessun dubbio, ora so che se esco di casa e da me stesso non devo più stare a guardarmi intorno, ma partire verso la direzione giusta, con un obbiettivo chiaro in mente, senza bisogno di complesse strategie.
E così, grazie a quella fotografia e a quel ricordo, ho incominciato a guardare negli occhi qualche persona che incontro nel mio cammino e… gli faccio un sorriso.
Sorrido a chiunque incrocia il mio sguardo negli uffici, al mercato o davanti alle vetrine. La reazione della gente è molto varia; alcuni fingono di non vedermi, alcuni pensano che quel sorriso sia rivolto ad altri, qualcuno penserà che sono completamente matto. Però c’è chi ricambia con un sorriso dolce, sereno ed io ritorno a casa soddisfatto e felice e non vedo l’ora di uscire nuovamente per riprovare ad adescare qualcuno.
Sì perché senza pagare tessere, permessi e marche da bollo sono diventato un pescatore di professione: un pescatore di sorrisi…

2° clas. Luciano Milanese da Poirino con: “Maglie nere”
A metà strada fra una ricerca storica, che tuttavia è presente con buona acribia, e una novella di vita passata questo racconto ci porta a conoscere il significato delle «Maglie nere» senza alcun riferimento ad altri indumenti di quel coloro e più nefasti nella memoria. Discreta la scrittura.
Maje nèire
Tanti a l'avran ëd sicur sentù parlé, ëdcò al di d'ancheuj, dël tal ësportiv, dël tal coridor o dël tal àutr përsonagi che a l'era vagnasse la maja nèira 'nt na competission: an efet a l'é dventà na costuma cola 'd dé për figura la maja nèira a chi a riva ùltim an qualsëssìa sòrt ëd competission, combin che ant ël passà costa maja almen sinch o ses vòlte a l'avìo dala për dabon a dj'atleta rivà ùltim ant na gara sportiva. Mi da gagno i andasìa con pare a vëdde 'l Gir d'Italia cand a passava da mie bande e pròpi antlora i l'avìa sentù parlé 'd cola malfamosa maja nèira ma gnun a l'avìa mai spiegame da bin l'incamin ëd la costuma. Costa a l'é la stòria coma che a l'han contamla con la giunta dij riferiment temporaj trovà sla ragnà. Donca as conta che la prima maja néira a l'avìa butassla a còl ant ël 1926 un ciclista ch'a corìa da “indipendent”, visadì sensa gnun-a squadra ch'a lo giutèissa con ij riforniment o an ocasion d'un guast mecànich, ansì che, cand a finìo ël bèive e 'l mangé che a l'era portasse dapress ant ël sacapan, opura as forava 'l "palmer", a dovìa rangesse bele da chiel. Sto ciclista a l'avìa na manera 'd core 'n pòch baraventan-a; an pianura, chiel che a l'era un grand e gròss, a partìa 'me 'n treno, a vagnava fin-a a n'ora ëd vantagi peui as fërmava, ëd sòlit ant n'òsto, për arpatesse, a spetava 'l grop e as butava da darera a tuti a ciucé le roe fin-a a l'ariv. Ël nòm ëd cost përsonagi a l'era Pinin Ticozzelli, stranomà “Tico”, e la maja nèira a l'avìa vagnala nen përchè a rivèissa sèmper darera a tuti, ëdcò se 'l vissi 'd rivé ùltim a 'l l'avìa ma a le partense, ma per tuta n'àutra rason. Chiel, anans ëd butesse a core 'n biciclëtta franch al Gir d'Italia dël 1926, n'aventura che a l'erà durà mach tre tape përchè a l'era stàit antrucà da na mòto, a giugava al balon ant ël Casal e për core an biciclëtta a dovrava la maja da balon ëd soa squadra che a l'era, e a l'é ancora ancheuj parèj, nèira con na stèila bianca slë stòmi. Fòrse a l'era pròpi stàita la manera 'd core tant baraventan-a 'd “Tico” che a l'avìa inspirà l'istitussion d'un premi da dé a l'ultim an classìfica, arconossìbil da la maja nèira, e dcò con ëd bondos premi an arzan. Però costa maja a l'era stàita arconussùa ufissialment mach dal 1946 al 1951, ani caraterisà da j'épiche dësfide tra doi ciclista, ël tortonèis Malabrocca e 'l venet Carollo, ch'a trovavo tute le manere le pì dròle e baravantan-e për rivé ùltim: a së stermavo ant le fnere, ant j'òsto, ant ij céss, as foravo le gome daspërlor, e via fòrt, an manera da podèj rivé con ël massim ritard ma con l'atension ëd nen superé 'l temp lìmit. A rivé ùltim as vagnava motobin; Malabrocca, stranomà "ël cinèis", ant ël Gir dël 1946 a l'avìa vagnà sessantamila lire, motobin ëd pì che Fredo Martini che an col Gir a l'era rivà al pòst ch'a fà neuv. Tutun Malabrocca a l'era nen un bon a gnente, ant soa cariera a l'era rivà prim an 138 gare dont 15 da professionista e 'dcò an doi campionà italian ëd "ciclo campestre", ma a chiel a-j piasìa parèj e a fasìa 'd tut për rivé ùltim. A l'era stàit pròpi përchè i coridor a trassavo tròp për rivé ùltim che ant ël 1952 la maja nèira a l'era stàita suspendùa. Tutun ant j'ani ch'a fan sessanta del milaneuvsent a-i era na squadra antrega 'd ciclista ch'a corìo con la maja néira a còl, cola 'd Giòrs Zancanaro. Ant ël 1964 na tapa dël Gir d'Italia a rivava a Lissandria con l'ariv butà pròpi ant ël vial dë dnans a la scòla che mi i frequentava. Për tut ël di 'd lession i l'avìo fàit pòch o gnente përchè i j'ero tuti da le fnestre a vëdde j'ovrié ch'a preparavo ij palchèt e le tribun-e për le autorità e për ël pùblich. Ël présside, che a l'era n'apassionà dle corse an biciclëtta, a l'avìa dane gnente meno che 'l përmess ëd resté a vardé la fin ëd la tapa da le fnestre butà sël vial ëd l'ariv. Ant ël dòp mësdì a l'avìa ancaminà a rivé la longa coalera romorosa e colorà 'd viture e 'd camion parà con le reclam le pì diverse. A-i ero: tubo 'd pasta për ij dent, salam, formagg e formagin, tolëtte 'd carn enscatolà, póver për lavé, savonëtte, gelato, asi e atrass për la cusin-a, e via fòrt. Col ambaradan a finìa pì nen, a l'era andàit anas apopré për n'ora. A la bonora ij ciclista a son rivà; an volada a l'avìa vagnà Mealli, maja reusa Anquetil ma lòn ch'a l'avìa frapame a l'era stàit ël vëdde coj coridor ch'a l'avìo na maja nèira sensa gnun-e reclam, a-i era mach la scrita “Sport”. Un ëd costi-sì a l'era pròpi Zancanaro, ciclista lissandrin, ch'a corìa con soa echip d'indipendent, e che, bele sensa gnun apògg, dontrè di prima a l'avìa vagnà la tapa Roccaraso-Caserta an fasend cobia con cola già vagnà ant ël Gir ëd l'ann prima andova a l'era dcò rivà ters ant la classìfica general. Na tersa tapa a l'avrìa dcò peui vagnala ant ël 1967; për lòn a l'era peui stàit stranomà ël “Corsaro Nero”. Naturalment le maje néire dl'echip ëd Zancanaro a l'avìo gnente da spartì con cole dj'ani 40 e sinquanta dël 1900. E 'me ciusa 'n bombonin. La vicenda dla maja nèira 'd Malabrocca a l'avìa tant antrigà l'ator ëd teatro e giornalista Maté Caccia al ponto da possèlo a scrive, ëdcò con l'ajut ëd j'arcòrd dël ciclista midem, un test ëd teatro antitolà "La maglia nera. Gesta e ingegno di Luigi Malabrocca" portà an sena an tuta l'Italia a la fin dij prim des ani dël doimila. Un-a dle prime rapresentassion a l'avìo peuj fala pròpi an soa Torton-a.
Traduzione:
Maglie nere
Tanti avranno sicuramente sentito parlare, anche al giorno d'oggi, del tale sportivo, del tale corridore, del tal altro personaggio che si era meritato la maglia nera in una competizione; effettivamente è diventata una consuetudine quella di attribuirla simbolicamente a chi arriva ultimo in qualsiasi genere di competizione, quantunque nel passato, l'avessero assegnata veramente, almeno cinque o sei volte, ad atleti arrivati ultimi. Io da bambino andavo con papà a vedere il Giro d'Italia quando passava dalle nostre parti e proprio allora avevo sentito parlare di quella famigerata maglia nera ma nessuno mi aveva mai spiegato l'inizio della consuetudine. Questa è la storia come mi è stata raccontata con l'aggiunta di riferimenti temporali trovati in rete. Dunque si dice che che la prima maglia nera se la fosse messa addosso nel 1926 un ciclista che correva come indipendente, cioè senza nessuna squadra che lo aiutasse con i rifornimenti o in caso di guasto meccanico, così che, quando finivano le bevande e il cibo che si era portato dietro nel tascapane oppure si bucava un tubolare, doveva arrangiarsi per conto suo. Questo ciclista aveva un modo di correre un po' stravagante; in pianura, lui che era un tipo grande e grosso, partiva come un treno, guadagnava fino a un'ora di vantaggio poi si fermava, solitamente in una osteria, per ristorarsi, aspettava il gruppo e poi si metteva dietro a succhiare le ruote. Questo personaggio si chiamava Giuseppe Ticozzelli soprannominato "Tico" e la maglia nera se l'era guadagnata non perché arrivasse sempre ultimo, anche se il vizio di arrivare dietro a tutti lui ce l'aveva però alle partenze, ma per tutt'altra ragione. Lui, prima di mettersi a correre in bicicletta nel Giro del 1926, un'avventura durata solo tre tappe perché investito da una moto, aveva giocato a calcio nel Casale e per correre in bici usava usava la maglia da calciatore della sua squadra che era, ed è ancora oggi, nera con una stella bianca sul petto. Forse era stato il modo tanto stravagante di correre di "Tico" che aveva ispirato l'istituzione di un premio, riconoscibile con la maglia nera, da dare all'ultimo in classifica, accompagnato da importanti premi in natura e in denaro. Però questa maglia l'avrebbero data solo dal 1946 al 1951, periodo caratterizzato delle epiche sfide tra due ciclisti, il tortonese Malabrocca e il veneto Carollo, che trovavano tutti i modi più strani e stravaganti per arrivare ultimi: nascondersi nei fienili, nelle osterie, nei bagni, bucarsi le loro stesse gomme e altro ancora in modo da poter arrivare con il massimo ritardo ma con l'attenzione di non superare il tempo limite. Arrivare ultimo si guadagnava molto bene; Malabrocca, soprannominato "il cinese", nel Giro del 1946 aveva guadagnato sessantamila lire, molto di più di Alfredo Martini in quel giro arrivato nono. Comunque Malabrocca era tutt'altro che scarso, nella sua carriera aveva vinto 138 gare di cui 15 da professionista e anche due campionati italiani di "ciclo campestre", ma a lui piaceva così e faceva sempre di tutto per arrivare ultimo. Era stato proprio perché i corridori baravano che nel 1952 la maglia nera venne sospesa. Tuttavia negli anni Sessanta del 1900 c'era una intera squadra di ciclisti che gareggiavano indossando la maglia nera, quella in cui correva l'alessandrino Giorgio Zancanaro. Nel 1964 una tappa del Giro d'Italia arrivava ad Alessandria con il traguardo posto proprio nel viale davanti alla scuola che io frequentavo. Per tutto il giorno avevamo lavorato poco o niente perché eravamo tutti alla finestra a vedere gli operai che preparavano i palchi e le tribune per le autorità e il pubblico. Il preside, che era un appassionato di ciclismo, ci aveva dato nientemeno che il permesso di restare a guardare l'arrivo della corsa dalle finestre della scuola che guardavano il viale d'arrivo. Nel primo pomeriggio era iniziato l'arrivo del lungo serpentone rumoroso e colorato di automobili e camion addobbati con la più svariata pubblicità. C'erano: tubi di dentifricio, salumi, formaggi e formaggini, scatolette di carne in scatola, detersivi, saponette, gelati, attrezzature da cucina e tanto altro. Quella confusione non finiva mai, era andata avanti per circa un'ora. Finalmente i ciclisti erano arrivati; in volata aveva vinto Mealli, maglia rosa Anquetil ma ciò che mi aveva stupito era stato il vedere quei corridori con una maglia nera senza nessuno sponsor ma solo con la scritta "SPORT". Uno di questi era appunto Zancanaro che gareggiava con la sua squadra di indipendenti, e senza nessun appoggio pochi giorni prima aveva vinto la tappa Roccaraso-Caserta facendo coppia con quella già vinta l'anno prima dove era pure arrivato terzo nella classifica generale del Giro. Una terza tappa l'avrebbe pure vinta nel 1967; per quello era stato soprannominato "Corsaro Nero". Naturalmente le maglie nere della squadra di Zancanaro avevano nulla a che vedere con quelle degli anni Quaranta e Cinquanta del 1900.
E per finire una piccola chicca. La vicenda della maglia nera di Malabrocca intrigò tanto l'attore di teatro Matteo Caccia al punto da spingerlo a scrivere, anche con l'aiuto dei ricordi dello stesso ciclista, un testo teatrale intitolato "La maglia nera. Gesta e ingegno di Luigi Malabrocca" portato in scena in tutta Italia alla fine del primo decennio del Duemila. Una delle prime rappresentazioni è andata in scena proprio nella "sua" Tortona.

1°clas. Luigi Lorenzo Vaira da Sommariva del Bosco (Cn) con:
“Fiammiferi di montagna”
Motivazione: In questo racconto, che ha il profumo e la semplicità di una fiaba, l’autore si diletta con garbo a portarci a contatto con alcune delle problematiche più attuali dallo sfruttamento dei boschi alla funzione di protezione del territorio offerta dagli alberi. Non manca poi il grave fenomeno degli incendiari e dei piromani che tanto scempio fanno nelle nostre montagne, ma con un’intuizione geniale qui si riesce a trovare una soluzione, per così dire, ecologica a tutto tondo. Una bella storia dove l’uomo, per una volta, non è l’attore principale. Ottima scrittura a parte qualche disattenzione.
Ij brichèt ëd montagna.

Squasi tute le fàule a ʼncamin-o con: “a-i era na vòlta” o magara con: “tanti, tanti ani fa”, nopà la mia, cola ch’i stoma contand, a l’é bastansa recenta da già che tut a l’é prinsipià ant na bela giornà dij primi ani dël secol ch’i stoma vivend. Ël frèid ëd l’invern a l’era mach pì n’arcòrd e la brin-a, che ʼnt la stagion pì dura, a ricama le feuje dle piante, a l’avìa lassaje ël pòst a milanta stisse ʼd rosà ch’a bërlusavo al sol ëd la matinà. Ant la pian-a d’un cit pais, famos për ij vivié dj’arbre ch’a ven-o dovrà për fé la carta, le piante bin lovà, an file tanto precise ch’a smijavo dissegnà da n’architet, a j’ero l’orgheuj dël padron ëd cole des giornà ëd tèra. An pòch pì che na dosen-a d' ani, dal di ch’a j’ero stàite piantà, cole arbre, o pòbie coma ch’a-j diso da dj’àutre bande, a j’ero dventà tanto gròsse che an mes a soe feuje manch ël sol a riessìa pì nen a passé për ëscàudeje le rèis. Minca sman-a monsù Tistin, negossiant da bòsch, a ʼndasìa a passeje an rassegna coma ch’a fusso stàite dij soldà e chile, tute precise, istesse un-a a l’àutra, a-j dasìò na sodisfassion ch’a l’é mal fé dëscrive a paròle. Le des giornà dël vivié a j’ero butà për bislongh, an manera che da la part pì strèita ʼd col teren a-i fusso mach eut piante, ma an vardand-lo sla longhëssa, a smijava squasi che la curva dël mond a lassèissa nen rivé lë sguard fin-a al canton dë dlà. Cole pòbie, tutun, a j’ero tanto bele coma ch’a j’ero dlicà; për chërse san-e a l’avìo dabzòn ëd tante cure, tanta eva për garantije la sava e vàire tratament con ëd meisin-e për prevnì le maladìe. Pensé che na vòlta j’arbre a smijavo piante da bon pat, ch’a servìo a pòch o gnente se nen mach a ʼnvisché ël feu. Comsëssìa la selession sèmper pì precisa, fàita da j’òm, a l’avìa portà a creé dj’esemplar squasi con gnun difet, ma cole piante ʼd na vòlta, cole ch’a nassìo da sole sensa l’agiut dij paisan, che fin a l’avìo fàit? Ebin, j’arbron servaj, motobin pì robust dij sò cusin d’anlevament, a j’ero nen përdusse dël tut. Ani andaré cole piante a vnisìo dovrà dai minusié për fé ʼd mobilia e dzortut për costrùe ij porton ëd le ca, ch’a dovìo esse fòrt, ma lèger ant l’istess temp, apress pòch për vòlta as trovavo mach pì an brova a le bilere, anté che soe rèis a giutavo a tnì sù le rive e andova che gnun as pijava la gran-a d’andeje a tajé, da già ch’a l’avrìo podù serve coma bòsch da brusé, ma a j’ero giumai bin pòchi coj ch’a së scàudavo an cola manera.
Mia stòria a part pròpi da lì, da la riva d’un biarlòt ch’a corìa arlorng al vivié ʼd monsù Tistin, andova che tre piante d’arbron servaj, a jʼero an pien-a fioridura e minca buf ëd vent a-j dëstacava dij bron ëd cola rassa ʼd cotonin-a ch’a conten la smens, për portela lontan. Milanta e milanta smens consegnà al destin ant la speransa che quajdun-a a podèissa taché e ʼnreisesse da n’àutra part, a sarìo forsi nen bastà për goerné la rassa, se la fortuna a l’avèissa nen daje na man. Ant j’ani passà la pì granda part dij piantin d’arbron nassù lì davzin, a l’era stàita ës-ciancà da la sapa ʼd Tistin ch’ a vorìa nen ambastardì la rassa ʼnt sò vivié, dj’àutri, nopà, a j’ero stàit rusià dai lumasson o mangià da le bestie servaje quand ch’a j’ero pòch pì gròss d’un fil d’erba e donca a le speranse ëd porté anans la famija a j’ero motobin pòche. Tutun, coma, ch’i l’oma già dit, minca tant ël boneur a giuta ël destin e lòn ch’a smijava nen possibil a dventa realtà. An mes a le file d’arbre “moderne” a j’era formasse na coverta d’bora bianca ch’a smijava fiòca e quàich bron dë smems servaja a l’era calaje an mes gropand-se a j’àutre coma ʼnt na malòca legera ch’a rotolava dzora a ʼn tapiss ëd feuje sëcche. Da sola la smens servaja a l’avrìa avù gnun-e speranse ‘d sovravivensa, ma an mes a j’àutre l’aria a l’avrìa poduje porté an fòra, lontan dai pericoj, magara ʼnt un leu anté che le piante a vnisìo nen tajà da cite… chi sà?
La giornà, ch’ a l’era ʼncamisse bin, con un bel sol bërlusant, a l’era peui vastasse, le nìvole a l’avìo campà n’ombra scura ansima al paesagi e, a na bela mira, col ch’a smijava un buf ëd vent a l’era trasformasse ʼnt n’orissi ch’a sirava fin-a le piante pì àute. La cotonin-a a virolava ʼnt l’aria coma ij patarass ëd mars; da ʼn fòra ij tron as fasìo sente fòrt ma, për boneur, a j’ero nen compagnà la da pieuva e la natura a l’avìa donca butà a sena col ëspetacol che j’òm a ciamo “temporal d’aria”. La malòca ʼd cotonin-a con la smens servaja a l’era stàita portà su an cel e da lì, possà da l’orissi ch’a së spostava vers le montagne, a l’era rivà ʼnt un bòsch ëd frasso e sapin; pròpi l’ambient pì giust për anreisesse e chërse san-a. Ant col leu l’arbron servaj a l’avìa sùbit tacà da bin, nopà per ij sò cusin la lontanansa da le cure dj’òm e la tèra mancanta dij fertilisant chìmich ch’as dovravo an pianura, a jʼero stàite fataj.
Ant un bòsch ëd montagna vëdde n’arbron a l’é pa vàire bel fé, la temperatura bassa a l’avrìa ʼd sicur massà na pòbia dla pian-a, ma le piante servaje a son motobin pì fòrte e donca pòch për vòlta col foresté a l’era vnuit su drit coma na candéila, tranquil coma un pocio e dëstorbà mach, minca tant, da le përson-e ch’a andasìo a serché ij fonz. Quajdun, nen vàire pràtich, a lo pijava për na biola, magara ʼmbastardìa, për via dla scòrsa scura, ma apress a passava anans sensa feje tròp cas. Pròpi cola scòrsa, scura e seulia, a l’era stàita lòn ch’a l’avià cissà un giovnòt a sisleje, con un cotel, ij nòm sò e ʼd soa morosa, ma col tatuagi, ùnich segn ëd la man ëd j’òm, a l’era cò chiel ësvanì con ël temp. Le stagion as corìo apress un-a con l’àutra. Ant col bòsch, ch’as trovava ansima a un piuvent dla montagna a l’arpar da le corent d’arià pì frèide, a vivìo tante creature: dai cravieuj a le volp, dai fasan ëd montagna a j’oloch, dai peroross ai pich e tuta cole bestie, con ij sò arciam, a dasìo tant un sens ëd pas a l’ambient da felo smijé a un cit paradis an tèra. Vàire ani prima col baron ëd cotonin-a possà dal vent a l’avrìa mai podù anmaginé na blessa përparèj e se cole tre arbre servaje, piantà arlogh a la bilera ëd Cavalimor, a l’avèisso vist un leu tant bel, nopà che invidié le piante ʼd monsù Tistin a l’avrìo avune pietà. Ij pin e ij frasso, coma ʼdcò ij sapin e via fòrt për tuta la vegetassion originaria dla montagna, a vnisìo fin-a controlà da le guardie forestaj për tant che gnun a podèissa vasté ʼl bòsch, coma che dle volte a capita ʼncora adess quand che ij sitadin a van a tajé ij sapin për fé l’erbo ëd Natal. Pròpi ant un-a ʼd cole ispession un militar a l’era ancorzisse che an mes a col bòsch a j’era un bel arbron servaj, san coma na pera, ma ch’a l’avià gnente da spartì con le piante dël pòst e donca, bele con na frisa ʼd magon, a l’avìa trassaje na cros rossa sla scòrsa. Col-lì a l’era ʼl segn ch’a condanava l’arbra a esse tajà e an efet dòp na sman-a, o pòch ëd pì, Fredo, ël minusié d’un pais lì dacant, për ordin dël capitan ëd la Forestal, a l’era cariasse ʼl badò ʼd tajela e portesse a ca ʼl bion e le rame, lassand ël bòsch tut bin polid.
Nòstra conta a smijerìa finìa përparèj, ma la part pì bela a l’é ancora nen rivà: për portesse la pianta fin-a al laboratòri, Fredo a l’avìa fàit tre vire con ël mul, ël prim viagi për tramuvé ël bion tajà an mes e j’àutri doi për gavé tute le rame pì cite. La part pì gròssa, dop d’esse stàita almeno quatr ëstagion a sëcché ʼnt l’èira, a sarìa dventà un let a castel për ij doi nevod ëd Fredo, ma le rame pì cite a andasìo bin a fé gnente d’àutr se nen fassine da brusé. Nen avend veuja ëd cariesse tròp ëd bòsch verd, coma ch’a disìa un proverbi ʼd na vòlta,la solossion pì sempia a l’era stàita cola ëd vende tuta la bronda a na dita specialisà ʼnt ël travajé jë scart ëd bòsch. Ant cola bòita a së sgairava gnente: tuta le ramëtte pì cite a vnisìo ciapolà da un machinari ch’a na fasìa tante bërle, tipo cole dël mangim dij conij, da brusé ʼnt le stuve moderne, ij branch pì gròss, nopà, a partìo për la fàbrica dij brichèt. Pròpi parèj, mi i son un dij tanti tòch ëd bòsch che da col arbron servaj a son dventà dij brichét. Ëd sicur a sarìa piasume pì tant esse dovrà për col let a castel, ma a bzògna contentesse… La vita d’un brichèt a dura pòch, tutun a serv a fé na ròba amportanta e donca a merita ʼd rispet. Sensa conté che nòstr ùltim sacrifissi a compòrta për nojàutri në sfòrs nen da pòch. Për anvischene, quand che j’òm an fërcio sla carta a véder ëd nòstra scatola, i l’oma da fé bin bin atension a sté dur coma ʼd panòt dësnò nòstra testa, quatà ʼd sorfo, a së s-ciapa e i dventoma inutij… mòrt për gnente. Fin-a a sì a smija sèmper na stòria tut àutr che speciala cola ch’i stoma contand, ma a lʼé adess che la facenda a ven curiosa. Mi, ansema a disneuv dij mè frej, i son ëstàit vendù, ant un tabachin ëd la Val Susa, a un monsù ch’a smijava un cassador, da coma ch’a l’era vestì. La facenda stran-a a l’era che an soe sacòce a j’ero nì sigale nì sigarèt e manch tabach da buté ant la fuma, ma a l’era ver ch’a podìa ëdcò avèj-ne catà për anvisché la stuva o ʼl “pibigas” ëd ca. Belavans j’intension ëd col òm a j’ero stàite bin ciàire quand che, fërmand la vitura an broa a la strà ch’a passa visin ai bòsch, ansi a “nòstr” bòsch, col anté ch’i j’ero nà, col sassin a l’era ʼncaminasse a pé, marciand an mes ai pin e portand-se për man na tòla ʼd benzin-a. An tra tuti jë schifos ch’a marcio sla facia dla tèra pròpi ʼnt le man ëd chiel-lì i dovìo capité. Nò! A l’era na facenda ch’a stasìa nì an cel e nì an tèra; i podìo nen esse pròpi nojàutri a giuté col delinquent a brusé ij bòsch, ma coma fé? I j’ero mach dij brichèt, fàit apòsta për dé feu, mach dlë scaje d’arbra servaja che tutun a l’avìo nen dabzògn ëd parlé për capisse. Noi, ch’i rivavo tuti da la midema rama, i j’ero coma dij binej: lòn ch’a sentìa, lòn ch’a pensava un a l’era coma ch’a lo pensèisso tuti j’àutri e donca la decision a l’era stàita pijà. La benzin-a a l’era già slargasse dzora a ʼn baron ëd feuje sëcche e sò odor as sentìa da lontan… odor ëd mòrt për le piante e për tute le creature dla montagna. Forsi col ravagi a sarìa nen ëstàit possìbil evitelo për sèmper, ma gnun ëd nojàtri vint brichét l’avrìa giutà cola man vigliaca a fé lòn ch’a l’avìa ʼnt la ment. Quand che col delinquent a l’é provasse a ʼnvischene, un apress a l’àutr i soma s-ciapasse tuti, a pòsta, prima ëd fé la pì cita spluva përchè nojàutri dij nòstri bòsch i j’ero nen mach an-namurà, ma për lor i l’avìo pròpi perdù la testa.
I fiammiferi di montagna
Quasi tutte le favole iniziano con: c’era una volta o magari con: tanti, tanti anni fa, invece la mia, quella che sto per raccontarvi, è abbastanza recente poiché tutto è iniziato in una bella giornata dei primi anni di questo secolo. Il freddo dell’inverno era soltanto più un ricordo e la brina, che nella stagione più dura, ricamava le foglie degli alberi, aveva lasciato il posto a migliaia di goccioline di rugiada che luccicavano al sole del mattino. Nella pianura di un piccolo paese paese, famoso per i tanti vivai di pioppi che vengono utilizzati per la fabbricazione della carta, le piante perfettamente sistemate, in file tanto precise da sembrare disegnate da un architetto, erano l’orgoglio del proprietario di quelle dieci giornate di terra. In poco più di dodici anni, dal giorno in cui vennero piantati, quei pioppi erano cresciuti così tanto che tra le loro foglie nemmeno il sole riusciva più a filtrare per scaldarne le radici. Ogni settimana il signor Battistino, commerciante di legname, andava a passarli in rassegna come se fossero stati dei soldati ed il vederli così, tutti precisi, uguali gli uni agli altri, gli dava una soddisfazione che a parole è difficile descrivere. Le dieci giornate piemontesi del vivaio erano disposte in lunghezza, in maniera che dalla parte stretta di quel terreno vi fossero solamente otto alberi, ma osservandone l’altro lato, pareva quasi che la curva del mondo non consentisse allo sguardo di arrivare fino all’ angolo opposto. Quei pioppi, tuttavia, erano tanto belli quanto delicati; per crescere sani necessitavano di tante cure, di molta acqua per garantirne la linfa vitale e di molteplici trattamenti antiparassitari. Pensare che un tempo i pioppi erano considerati alberi di poco pregio, utili soltanto ad alimentare le prime scintille del fuoco. Ad ogni modo la selezione sempre più accurata, fatta dagli uomini, aveva portato a creare degli esemplari praticamente privi di difetti, ma le piante di un tempo, quelle che nascevano spontaneamente senza alcun aiuto degli agricoltori, che fine avevano fatto? Ebbene, i pioppi selvatici molto più robusti dei loro cugini da vivaio, non si erano estinti del tutto. Anni addietro quelle piante venivano utilizzate dai falegnami per realizzare mobili e soprattutto per costruire i portoni delle case che necessitavano di essere forti, ma leggeri allo stesso tempo, poi poco per volta si potevano trovare soltanto più lungo i corsi d’acqua, dove con le loro radici contribuivano ancora a tenerne salde le sponde. Nessuno si prendeva la briga di andare a tagliare quegli alberi perché ormai venivano utilizzati solo per la stufa, ma ben poche persone si scaldavano ancora in quel modo.
La mia storia inizia proprio da lì, dalla sponda di una piccola bealera che scorreva lungo il vivaio del signor Battistino, dove tre piante di pioppo selvatico erano in piena fioritura ed ogni soffio di vento staccava dai rami ciuffi simili a cotone, spargendone lontano i semi. Migliaia e migliaia di semi affidati al destino, con la speranza che qualcuno di loro potesse germogliare ed attecchiare altrove, non sarebbero forse stati sufficienti a garantire la sopravvivenza della specie, se la fortuna non avesse dato loro una mano. Negli anni precedenti la maggior parte di piantini di pioppo selvatico nati nelle vicinanze del vivaio era stata sradicata dalla zappa del signor Battistino che temeva una contaminazione della specie, altri, invece, erano stati rosicchiati dalle lumache o mangiati dagli animali quando erano poco più di un filo d’erba e quindi le speranze di portare avanti la specie erano davvero esigue. Tuttavia, come abbiamo già detto, ogni tanto la fortuna aiuta il destino e ciò che che pareva impossibile diventa realtà. Tra le file di pioppi “moderni” si era formata una coperta di lanuggine bianca simile a neve e qualche ciuffo di semi selvatici vi era caduto nel mezzo legandosi agli altri come in una palla di neve leggera che rotolava sopra ad un tappeto di foglie secche. Da soli, i semi selvatici non avrebbero avuto alcuna speranza di sopravvivenza, ma legati agli altri il vento li avrebbe portati distante, lontani dai pericoli, magari in un luogo dove gli alberi non rischiavano di venir estirpati da piccoli… chissà?
La giornata, che era iniziata bene, con un bel sole lucente, d’un tratto si guastò, le nuvole gettarono un’ombra scura sul paesaggio e, ad un certo punto, il soffio di vento si trasformò in una bufera che piegava anche gli alberi più alti. Il cotone volteggiava nell’ aria come fiocchi di neve primaverile; in lontananza i tuoni si facevano sentire forti, ma fortunatamente, non erano accompagnati dalla pioggia, la natura aveva dunque portato in scena quello spettacolo che gli uomini chiamano “temporale d’aria”. La pallottola di cotone contenente i semi selvatici fu portata su in cielo e da lì, spinta dalla forza della bufera che si spostava verso la montagna, giunse in un bosco di frassini ed abeti; proprio l’ambiente adatto per mettere radici e crescere sani. In quel luogo il pioppo selvatico attecchì subito, invece per i suoi cugini, la lontanaza dalle cure degli uomini e la terra priva dei fertilizzanti chimici che si usavano in pianura, erano state fatali. In un bosco di montagna vedere uno di quegli alberi non è semplice, la temperatura rigida avrebbe certamente ucciso un pioppo domestico, ma gli alberi selvatici sono molto più resistenti e quindi, poco alla volta quel forestiero crebbe tranquillo e dritto come una candela, disturbato solo, di tanto in tanto da qualche cercatore di funghi. Qualcuno, poco pratico lo scambiava per una betulla, magari non proprio pura, per via della corteccia scura, ma poi passava oltre senza curarsene troppo. Proprio quella corteccia, scura e liscia, fu la molla che spinse un giovanotto ad incidervi con un coltellino il proprio nome e quello dell’ innamorata, ma quel tatuaggio, unico segno della mano dell’ uomo, svanì anche lui col passare del tempo. Le stagioni si rincorrevano l’una con le altre. Nel bosco, che si trovava su di un versante della montagna al riparo dalle correnti d’aria più fredde, vivevano tante creature; dai caprioli alle volpi, dai gallocedroni ai gufi, dai pettirossi ai picchi e tutte quelle creature, con i loro richiami, davano un senso di pace all’ ambiente tanto da farlo sembrare un paradiso in terra. Molti anni prima quel batuffolo di semi spinto dal vento non avrebbe mai immaginato una bellezza simile e se quei tre pioppi selvatici, piantati lungo la bealera di Cavallermaggiore, avessero visto un luogo così bello, anziché invidiare gli alberi del signor Batistino ne avrebbero avuto pietà. I pini ed i frassini, così come anche gli abeti e via dicendo tutta la vegetazione originaria della montagna, venivano perfino controllati dalle guardie forestali, in modo che nessuno potesse rovinare il bosco, come a volte accade ancora oggi quando gli abitanti delle città vanno a tagliare gli abeti per farne alberi di Natale. Proprio durante una di quelle ispezioni, un militare si accorse che in mezzo al bosco c’era un pioppo selvatico, sano e robusto, ma che non aveva nulla a che vedere con le piante autoctone e quindi, anche se con un po’ di dispiacere, lo contrassegnò disegnandovi una croce rossa sulla corteccia. Quello era il segno che condannava il pioppo ad essere tagliato ed in effetti dopo una settimana o poco più, Alfredo, il falegname di un paese vicino, su ordine del capitano della Forestale, dovette accollarsi il compito di tagliare l’albero e portare via tutti i rami recisi lasciando il bosco perfettamente pulito.
Il nostro racconto parrebbe giunto così alla fine, tuttavia la parte più bella deve ancora arrivare: per portarsi nel laboratorio il pioppo selvatico Alfredo dovette fare tre viaggi con il mulo, il primo per trascinare via il tronco tagliato a metà e gli altri due per rimuovere tutti rami della chioma. Il tronco dopo essere stato fatto seccare nel cortile per quattro stagioni, sarebbe diventato un letto a castello per i nipotini di Alfredo, ma i rametti più piccoli non andavano bene che per farne fascine da ardere. Non avendo voglia di sobbarcarsi un compito gravoso, la soluzione più semplice fu quella di vendere tutte le frasche ad una ditta specializzata nel lavorare legna di scarto. In quella ditta non si sprecava nulla: tutti i rametti più fini venivano tritati da un macchinario che ne faceva pellets da bruciare nelle stufe moderne, i rami più grandi invece partivano alla volta della fabbrica dei fiammiferi. Proprio così, io sono uno dei tanti pezzi di legno che da quel pioppo selvatico sono stati trasformati in fiammiferi. Certamente avrei preferito essere usato per la realizzazione di quel letto a castello, ma bisogna accontentarsi… La vita di un fiammifero dura poco, tuttavia serve a fare una cosa importante e merita rispetto. Senza contare che il nostro ultimo sacrificio comporta, per noi, uno sforzo non di poco conto. Per accenderci, quando gli uomini ci sfregano sulla carta vetrata della nostra scatola, dobbiamo far bene attenzione a restare forti, rigidi, altrimenti la nostra testa,ricoperta di zolfo, si rompe e diventiamo inutilizzabili… morti per nulla. Fin qui continua a sembrare una storia per nulla speciale, quella che stiamo raccontando, ma è adesso che che diventa curiosa. Io, insieme a diciannove miei fratelli, fui venduto, in un tabacchino, della Val di Susa, ad un signore che, stando al suo abbigliamento, sembrava un cacciatore. La cosa strana era che nelle sue tasche non c’erano nè sigari nè sigarette e nemmeno tabacco da pipa, ma era pur vero che poteva averci acquistato per accendere la stufa o la cucina a gas di casa. Purtroppo le intenzioni di quell’uomo si rivelarono ben chiare quando, fermando l’automobile sul bordo della strada che passa vicino ai boschi, anzi al “nostro bosco”, quello nel quale eravamo nati, quell’ assassino si avviò a piedi, camminando tra i pini e portandosi per mano una latta piena di benzina. Tra tutti gli schifosi che camminanano sulla faccia della terra proprio nelle mani di quel piromane dovevamo capitare. No! Era una cosa che non poteva star ne in cielo ne in terra; non potevamo essere proprio noi ad aiutare quel delinquente ad incendiare i boschi, ma come fare? Eravamo solo dei fiammiferi, appositamente fatti per appiccare il fuoco, solo delle schegge di pioppo selvatico che tuttavia non avevano la necessità di parlare per capirsi. Noi che discendevamo dallo stesso ramo, eravamo come fratelli gemelli: ciò che sentiva, ciò che pensava uno era come se lo pensassero tutti gli altri e dunque la decisione fu presa. La benzina si era già sparsa su di un mucchio di foglie secche ed il suo odore, si sentiva da lontano… odore di morte per gli alberi e tutte le creature della montagna. Forse quello scempio non sarebbe stato possibile evitarlo per sempre, ma nessuno di noi, venti fiammiferi, avrebbe aiutato quella mano vigliacca a fare ciò che aveva in mente. Quando quel delinquente provò ad accenderci, uno dopo l’altro, volontariamente, ci rompemmo tutti ancor prima di far la più piccola scintilla, perchè noi dei nostri boschi non eravamo solo innamorati, ma per loro, avevamo letteralmente perso la testa.



Sez. Libri

4° clas: “Il brigante di Pietramarina” di Giovanni Sciara da Linguaglossa (Ct)
4° clas. “La vicina gentile” di Aurelia Rossi da Cremona
4° clas. “Una valigia di perplessità” di Piero Sesia da Torino
4° clas. “Amore destino” di Alberto Calavalle da Leffe (Bg)
4° clas. “Cose dell’anima”di Eugenio Fezza da Genova
4° clas. “I piani inferiori della luna” di Michele Manna da Roma

3°ex. clas. “Passava in bicicletta sotto la mia finestra” di Maria Casu da Quartu
S. Elena (Ca)
Motivazione: una storia appassionante, scandita dall'arrivo in paese, nella casa della moglie, delle lettere del protagonista che vive l'esperienza della guerra e della prigionia in Africa durante la seconda, terribile, guerra mondiale.

3°ex. clas “Nonna cioccolata” di Franco Sorba da Moncalieri (To)
Motivazione: Monferrato e Argentina, le storie si intersecano e danno il senso alla vita delle famiglie. Il linguaggio usato, i tempi letterari, la carica emotiva del racconto meritano il premio.

2° clas. “Un’altra vita” di Paola Melis da Viterbo
Motivazione: I temi della malattia, della fragilità del corpo e della forza delle donne vengono analizzati con durezza e chiarezza del linguaggio. Il racconto ha sprazzi di poesia e di speranza, che nascono tra le sofferenze e le lunghe meditazioni della protagonista.

1° clas. “Un anno strano” di Ennio Tomaselli da Torino
Motivazione: Un racconto scarno, molto attuale e purtroppo molto vicino alla brutta realtà delle problematiche giovanili che si dipana tra i meandri della vita dei due protagonisti, la ragazza sedicenne cresciuta in una famiglia disastrata e dal destino all'apparenza segnato e il magistrato minorile che cerca il dialogo con la ragazza e il suo mondo. Tutto il romanzo, tra vari drammi e imprevisti, ha il sapore della ricerca di una nuova speranza per il futuro. Scritto con abilità e cognizione di causa, è molto coinvolgente, anche se particolarmente duro, e diventa in qualche modo istruttivo per chi, come tanti di noi, non ha a che fare con questa tragica realtà.

Menzione d’onore sez. libri:
“Pensieri e racconti” di Casali Vittorio da Roma
“Io e Alda Merini” di Eleonora Giovannini da Camerata Picena (An)
“La notte delle candele” di Guido Mariani da Vallerano (Vt)
“Le tredici spine” di Guido Ferrari da Ceriale (Sv)

Sez. aggiunta Premio Silloge
Motivazioni dei Prof Davide Ghezzo e Andrea Laiolo
4° clas. -- “Narratori distratti” Flavio Francesco da Verona
4°clas. - “Frammenti e gocce” Nava Eros da Calcinato (Bs)

3° clas. - “Stati d’animo di un poeta” di Gino Iorio da Calvi Risorta (Ce)
Motivazione: Raccolta che si nutre di riecheggiamenti storici, in specie relativi al casertano e alla magnifica Reggia, nell’orgoglio di appartenenza a tradizioni di cultura e bellezza che non tramontano. Il volume è arricchito da prezioso materiale iconografico e dalle note critiche di Nicola Caprio Di Monaco, a loro volta espressione di poetica sensibilità.
2° clas. “La falce della decima musa” di Paolo Pera da Canale d’Asti (At)

Motivazione: Opera originale e personale, mista di poesie in versi e in prosa e illustrata con tavole dello stesso autore. Ricerca di sé nel mondo, rimpianto di un dio inconoscibile, lamento giovanile, apologia e critica a un tempo dello spirito postmoderno, innervati di struggente ironia e di un individuale stile surrealista, sostanziano quest’ampia silloge, il cui dialogo con la morte la colloca nella lunghissima trattazione della tematica macabra come voce nutrita di umori filosofici e speculativi. Impreziosisce l’opera l’introduzione di Mario Marchisio.

Medaglia del Senato offerta dal Presidente
On. Maria Elisabetta Alberti Casellati
Al 1° clas. “Il verso del tempo” Giuseppe Bianco da Casoria (Na)

Motivazione: Antologia di testi ricchi di un sentire forte, appassionato, mediterraneo, lessicalmente preziosi, slanciati in espressioni alterne di dolore e speranza. Le immagini di natura assumono forza archetipica, il richiamo del mare, del sole, dell’albero si apre alla profondità del mito, ripreso e rivissuto in moderne ma non meno struggenti forme di pathos.






PREMI SPECIALI offerti dall’Associazione: “La poesia salva la vita” a
Davide Beniamini – Michele Caresti – Premio Sez. Giovani
Ginevra Puccetti da Porcari (Lucca) per la poesia: “Abbracciala”
Tagliabue Gabriel da Cureglia Svizzera per la poesia: “Non posso”
Casiraghi Gioia da Leffe (Bg) per il racconto: “Per capire il silenzio”
Targa offerta dalla famiglia Bergoglio per ricordare la giovane Sarah ad
Umberto Rossi (12 anni) di Isola d’Asti perché più giovane concorrente

“Andrà tutto bene”

L’estate da tanti amata
è finalmente arrivata;
purtroppo sarà triste
per colpa di cose mai viste;
un virus molto brutto
che ha portato tanto lutto;
scuola chiusa, niente amici
sempre in casa infelici;
mascherina da indossare
pèer non farsi contagiare;
“Andrà tutto bene”
è il motto che più ci sostiene.
La vacanza difficilmente si farà
speriamo torni presto la normalità.

Premi speciali offerti dalle istituzioni
Targa offerta dall’Assessorato alla cultura del Comune di Asti Consegna Il Dott. Gianfranco Imerito Assessore alla cultura per il Comune di Asti
Alla scrittrice
Francesca Letizia Piccione da Marsala (Tp) per il libro: “Le stanze segrete di Lia”
Al poeta Pietro Metropoli da Salerno per la silloge “Fasi lunari”

Targa offerta dal Presidente del Consiglio Comunale di Asti
Dott. Giovanni Boccia che le consegna
Alla poetessa Crocchianti Claudia da Roma per la silloge “Forme e colori”
Al poeta Miranda Manuel da Eboli per la silloge: “Narratori distratti”

Targa offerta dal Lions Club di Asti “Vittorio Alfieri”
Al poeta Nunzio Navarra da Napoli premio poesia
Alla poetessa Davide Valeria da Caserta premio poesia
Consegna la segretaria di Lions Dott.ssa Marta Ferrero

Per ricordare Laura Astuni da Genova : la famigli offre una targa alla sua memoria al Dott. Angelo De Marco da Messina per il libro: “…ero una ragazza innamorata…” consegna la sorella signora Federica Astuni

 

 

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