DOCUMENTAZIONE

 

 

27/09/2023

SCALETTA 2023 – Cerimonia di Premiazione della XXII edizione del Concorso Nazionale di poesia e narrativa "Vittorio Alfieri"

 

Scaletta 2023 – XXII Concorso
Cerimonia di Premiazione della XXII edizione del Concorso Nazionale di poesia e narrativa "Vittorio Alfieri"
indetto dall' Organizzazione di Volontariato Culturale ONLUS:
"La poesia salva la vita"

Hanno partecipato al concorso 200 autori provenienti da molte regioni d'Italia e dall’Estero.
Diamo il benvenuto alle autorità presenti in sala ringraziandole di aver accolto il nostro invito. Sindaco dott. Maurizio Rasero
Dott. Paride Candelaresi Assessore alla Cultura del Comune di Asti
Dott. Giovanni Boccia assessore al personale del Comune di Asti
Dott. Walter Valente Presidente del Lions Club “Vittorio Alfieri” di Asti
Grazie al C.S.V. per il Prezioso sostegno ricevuto.
Ed a tutti voi, per aver partecipato al concorso e per la presenza qui oggi.

La giuria formata da docenti ed esperti qualificati.
Si è riunita per deliberare in merito alle valutazioni scaturite dall'esame dei testi partecipanti, lunedì– 04 Settembre 2023 ore 10. E dopo attento esame e valutazione dei tantissimi testi pervenuti. ha deliberato in maniera concorde premiando autori ed opere degne di merito e menzione. La giuria formata da:
Presidente Prof. Davide Ghezzo: e Prof. Claudio Calzone: Per la sez. libri e narrativa breve

Sig. Gregorio Crudo e Prof. Marcello Di Gianni per la sez. poesie in lingua italiana

Prof. Michele Bonavero. e Prof. Sergio Donna: per la sez. in lingua piemontese










Ed ecco i selezionati tutti al 4° posto per la sez. poesia in lingua italiana

4° Class. “Sorrideranno mattini” Lorenzetto Franco Carlo da Merlara (Pd)
4° Class: “Falena” di Giancarmine Fiume da Como
4° Class. “Sorelle” di Elisabetta Liberatore da Pratola Peligna (Salerno)
4° Class. “Consolami” di Valeria De Marchi da Pino Torinese (To)
4° Class. “Coscienza” di Massimo Mezzetti da Roma
4° Class. “Un granello di parole” di Pirone Vanda da Eboli (Sa)
4° Class. “ Scrivo parole” Blandino Giuseppe da Rosolini (Siracusa)

3° Class. °(ex aequo) “Adrienne” di Fausto Cassone da Dogliani (Cn)
Commento: L’autore ha tracciato poche linee che riescono a dare rotondità ad una situazione non più rimediabile, la malinconia che taglia le gambe ed impedisce di correre all’indietro inchioda nel rimpianto vecchie fotografie che si perdono nel ricordo di occhi castani in cui brilla un pensiero, forse, d’amore. Una bella e matura poesia che ruota attorno all’unico soggetto fatto di rimpianto e di dubbi che non si chiariranno…
3° Class. (ex aequo) “Il mare vivo della tua bellezza” di Vittorio Di Ruocco
da Pontecagnano (Sa)
Il mare vivo della tua bellezza

Tramonta il tuo sorriso nei miei occhi
quando seduto all’ombra di un ricordo
mi perdo nel tepore dell’attesa.
Non vale a nulla il pianto che dirompe
lungo le valli accese del tormento
e scuote e incendia i boschi del perdono.

Ma le ali dell’amore sono vento
fanno tremare i muscoli del mondo
danno alle fiamme petali di stelle.
E nel tragitto intatto e disperato
del mio travaglio che dipinge il sogno
ti stagli più impietosa della morte
nel mio orizzonte a scolorare il tempo.

Ed io sconfitto dalle tue parole
tagliate dal coltello del silenzio
asciugo le mie lacrime scolpite
sopra il mio viso come stalattiti.
Sono crepacci i buchi nel mio cuore
divorano le timide speranze
che sbocciano improvvise nei miei sogni
quando la notte fa già più paura.

E tu fantasma vivo e inaspettato
annienti ogni più timida illusione
lasciandomi annegare nel rimpianto.
Ma non sparire, lasciami volare
lascia che le parole disperate
raggiungano i tentacoli del tempo
e il mare vivo della tua bellezza
frantumi la mia anima smarrita
in perle di magnifica speranza.

L’autore presenta una serie di pregevoli spunti poetici pieni di logica che non distrae dal percorso che voleva intendere compiere. Belle le metafore, magnifiche le immagini che fanno scaturire una rotondità allo scritto ben agevole nella lettura. Il tema è compreso nell’universale bisogno di scaricare i detriti di storie importanti quando queste perdono l’originale attrattiva e scadono nella reciproca incomprensione. Il tempo che lenisce vecchie ferite non cancella, tuttavia, il dubbio di come sarebbe stato quel bello che avvince se fosse durato, ma, ormai, è troppo tardi per tornare indietro…
2° Class: “Cetra Delfica” di Giuseppe Bianco da Casoria (Na)
Cetra delfica

Oltre l'uscio del tempo corre
l’aura mèlica della cetra delfica.
Vola lo sguardo sulla scia
serica che dimezza il mare
alle falesie accese,
inviolabile strapiombo di gabbiani,
isola della memoria incisa
nella sera di pervinche africane.

Irrisoluta brezza,
sospiro d’abissi,
di circonfusi fremiti
che l’azzurra tesa tinge
di affioranti vene vagabonde,
languida voluttà di nereidi.
Strabilia al largo il carro
inafferrabile delle notti chiare
sui nembi di melograno
che inarcano la via di fuga.

L’autore dimostra una perfetta padronanza della materia e un abile equilibrio a dosare sapienti immagini efficaci. È un piacere leggere i suoi componimenti, tuttavia esprime il meglio di sé in questo scritto di poche righe, perché avvincente. C’è molta più poesia in questa opera di quanta ne possa scaturire dal resto delle opere corpose che ha presentato al concorso. C’è l’emozione avvincente delle parole efficaci e ben ricercate, la loro perfetta collocazione come un sapiente spettacolo pirotecnico in crescendo. Complimenti vivissimi!!
Una particolare menzione per la poesia: “I campi Elisi”


1° class. “Di verde Antico…” di Grazia Dottore da Messina
Di verde antico…

Tra erba verde e fiori di biancospino
intrecciavo serti di edera e speranze
nell’ostinato frinire di grilli maschi
alla calda luce del tramonto estivo.
I campi rosseggianti di papaveri
ondeggiavano ai raggi di quel sole
già voltato a svanire dietro i monti.
Di verde antico la porta del cuore
si schiudeva a un incanto inatteso
come leggero fiore di pervinca viola
sbocciato sull’estate che spingeva.
Ho ritrovato un’antica foto di noi due
sbiadita e sgualcita tra le tante carte
orfana nel cassetto di annosi ricordi.
Un turbinio disordinato di pensieri,
una tenera stretta, un timido bacio,
l’infinito abbracciato con lo sguardo.
Un tempo che appare ora distante
rimasto là, tra i sogni odorosi di ieri
tra gli stormi svolazzanti nell’azzurro
tra le lucertole nelle crepe dei muri.

Un quadro esemplare di un pomeriggio inoltrato, incombe la sera sulle speranze sconfitte, il frinire dei grilli è la colonna sonora di echi lontani che s’affacciano prepotenti a scompigliare i ricordi. Una fotografia sgualcita tra le tante carte, stralci di una realtà che li vide insieme e scivolata lungo divergenti pendii. Uno sbuffo al cuore, ciò che poteva essere e non è stato, ma, ora la distanza è incolmabile e troppi stormi hanno volato stagioni e lucertole nuove si rincorrono nelle crepe dei muri. L’autore con pochi tratti ben guidati ha dato vita ad un’opera essenziale nella sua brevità, ma completa nella esposizione che lascia piena godibilità.




I selezionati per la sez Narrativa in lingua italiana
4° Class, “Fermat che parlava alla luna” di Wilma Avanzato da Parma
4° Class. “Elettrodomestici in sconto” di Pietro Rainero da Acqui Terme (Al)
4° Class. “Il professore “ di Maria Grazia Bergantino da Benevento Assente
4° Class. “Una regina non si arrende” di Stefano Minari da Parma
4° Class. “Sensazioni diverse” di Renata Sorba di Asti
4° Class. “ Il profumo del tempo” di Antonio Zerrillo da Alba (Cn)
4° Class. “ Se questo è amore” di Franca Caiano da Asti

3° Class.
“Meglio la padella della brace “ di Silvano Giacosa da Alba (Cn)
Meglio la brace della padella Quanto tempo è passato da quando l’hanno rinchiusa lì dentro? Nemmeno se lo ricorda. Forse una decina d’anni. Da quando, suo malgrado, quella casa di riposo è diventata la sua prigione. Una prigione dorata e accogliente, dov’è servita e accudita come una regina. Anche se tra quelle mura nessuno degli ospiti 281 mantiene un accenno di regalità: nessun regno a cui aspirare, nessuno scettro da ostentare e ben pochi agi da condividere. Quando Osvaldo era ancora con lei la vita aveva un sapore ben diverso e l’ospizio era solo una lontana eventualità. Avevano vissuto insieme quasi cinquant’anni senza separarsi mai, nemmeno quando lui era stato ricoverato in ospedale a causa di un brutto infarto. Lei l’aveva vegliato per una settimana intera finché le complicanze di una successiva infezione non gliel’avevano portato via. Ottavia osserva fuori della finestra l’estate che sta per esplodere. I tigli e le betulle del parco sono verdi e rigogliosi come non mai. Le aiuole straripano di rose, di tulipani e di primule: il loro profumo si spande nell’aria, entra nel salone e… finisce per confondersi con l’’odore di minestra e di verdure lesse: il ripetitivo e nauseante menù della casa di riposo. Per fortuna il pranzo sta per concludersi e Ottavia può rientrare in camera a distendersi un po’. «Vico! Vico!» si sente a un tratto chiamare la donna. Dal fondo del refettorio un signore robusto e canuto si sbraccia con tutta l’energia dei suoi ottant’anni, reclamando la sua attenzione. “Che vuole Emilio?” si chiede l’anziana donna. Quello insiste e le fa cenno di raggiungerlo al tavolo. “Che cafone! Se vuoi dirmi qualcosa vieni tu da me, no?” Ottavia prende comunque il suo bastone e si avvicina allo scocciatore, quando sente un inserviente chiamare a gran voce: «Vecchio, Vecchio!» «Ma insomma! Perchè apostrofare così un ospite solo perché è anziano?» chiede sgomenta a Emilio avvicinandosi. «Ma no, è quello nuovo.» la rassicura lui. «Insomma è vecchio o è nuovo?» insiste Ottavia. «È il nuovo arrivato: si chiama Vecchio Pasquale.» le spiega Emilio, infilandosi uno stuzzicadenti tra le labbra «Allora come stai Ottavia?» 282 «Così, così. Dopo pranzo mi si gonfiano le gambe e faccio fatica a camminare.» «Siediti un attimo qui con me, allora» l’invita l’uomo indicandogli la sedia all’altro lato del tavolo «Ti devo parlare.» Di malavoglia Ottavia afferra una sedia e, mentre si siede, un’inserviente arriva con un vassoio di ciotole: «Eccovi il dessert, signori belli.» «A me, a me!» implora una signora che dire in carne è ancora poco, visto il doppio ventre e il sedere che traborda dalla sedia. «A te no, Carla, mi spiace. Hai la pressione alta. Lo sai cos’ha detto il dottore.» «Ancora budino alla vaniglia? Quando ci servirete una bella crostata di mele o una torronata?» chiede un arzillo vecchietto tutto pelle e ossa. «Magari in un’altra vita Achille,» lo informa bonariamente l’inserviente «quando avrai rimesso i denti.» Ottavia non sa se ridere o piangere: «Allora: cosa vuoi Emilio? Sono stanca e vorrei salire in camera a farmi una pennichella.» «Abbi pazienza, non ti ruberò troppo tempo.» L’uomo congiunge le mani sul tavolo e si pulisce lo stuzzicadenti nel tovagliolo unto di ragù. «Ascolta: é sempre amica tua la Luisa?» «Chi? La Ramello?» «Sì, hai buona confidenza con lei?» «Certo. Ma perché ti interessa?» «Ecco…» tentenna Emilio «Mi chiedevo… se tu avessi la cortesia di mettere una buona parola per me vorrei conoscerla meglio.» «Cos’è, ti ha già stufato la Santero? Non era la tua fidanzata?» «Sì ma...» la bocca a mezzaluna, Emilio ciondola la testa sconsolato «Il fatto è che ultimamente non esce più dalla stanza. Non la vedo da giorni.» «Sì, l’ho notato anch’io: sta poco bene?» Emilio si avvicina a Ottavia guardandosi intorno come se stesse per confidarle un segreto: «Ha sempre problemi di pancia. È poco piacevole da dire, ma come sai...» 283 «Soffre di dissenteria cronica poverina, lo so. Anzi, lo sanno tutti.» «Vedi dunque che non posso continuare una relazione simile.» «E con la Carena? Fino a ieri sbavavi dietro a lei che a malapena si regge in piedi.» Emilio fa un cenno con la mano come se volesse scacciare una mosca: «Lascia perdere. Onorina ha problemi di incontinenza: certi odori che non ti dico. Tant’è che Olga deve metterle il pannolone ogni sera.» «Me lo posso immaginare. Anzi credo quasi di sentirlo quell’odore, come tutti gli odori che ristagnano qui dentro: odore di urina, di vomito e …di vecchiaia! «Di vecchiaia?» «Sì, sai quando si dice così, no? Ecco è proprio quello che si sente in questo purgatorio. Ma ce n’è uno ancora più forte e che copre tutti gli altri.» Emilio fa la faccia sorpresa, incapace di capire: - E quale sarebbe, scusa?» «L’odore di morte no?» «Oh, per la miseria, quanto sei definitiva!» «Solo realista. Bisogna farsene una ragione: questa è la penultima tappa. E il traguardo sappiamo tutti qual è.» Emilio abbassa le mani sotto il tavolo e fa il cenno di toccarsi, ben felice di fare solo il gregario: che quella corsa a cronometro la vincano pure gli altri. «Allora vorresti provarci con la Ramello...» «Provarci… che brutta espressione. Diciamo che ho qualche interesse per lei. Mi sembra una brava donna, pulita e ordinata, va sempre a messa.» «Certo, brava, buona e soprattutto ricca!» puntualizza Ottavia con perfidia. «Ma cosa vai pensando? Io non ho certo bisogno di…» «Giordano! Ma per la miseria, un’altra volta!» si sente di nuovo sbraitare l’inserviente «Perché lo fai? Sono qui per questo, devi solo chiamare.» «Ecco, io... non lo so.» prova a difendersi un ometto piccolo e smilzo con l’aria assente. «Scusa, ma ho sempre il mal di pancia.» 284 «Come se fosse una novità: senti che puzza! Lo fai apposta lo so. Dovresti avere un minimo di rispetto per gli altri ospiti. Guarda che disastro, ti sei sporcato tutto. Dovrò cambiarti anche la canottiera, non solo il pannolone. Ma adesso basta, stavolta glielo dico a tua figlia.» «No a mia figlia no! Poi mi tratta male, lo sai.» «Ma sì, tranquillo, non lo farò. E poi, quando viene a trovarti quella? È da Natale dell’anno scorso che non si fa vedere. «Allora pensi di potermi aiutare?» torna alla carica Emilio. «Posso provarci, ma io mica faccio la sensale: di cappotti a casa ne ho già fin troppi. E del resto, non saprei che farmene qui dentro.» Emilio fa la faccia tra l’offeso e lo speranzoso «Mi dici sempre che l’amore travalica tutto…» «Ti capisco Emilio, ma aspetta un attimo: sei grande e vaccinato, se la Ramello ti sta a cuore fatti avanti, confidale il tuo interesse.» L’arzillo Casanova non riesce a convincersi, sperava nell’ambasciata di Ottavia per raggiungere l’obiettivo senza esporsi troppo. Suo malgrado, dovrà fare appello a tutte le sue arti da consumato Dongiovanni. Esausta, la donna si commiata da lui e si dirige in giardino, nella speranza di trovare un po’ di pace. «Vieni qui Ottavia, siediti accanto a me.» la invita Matilde, una compagna di ricovero. «Stamattina mi ha chiamato la direttrice.» «Cosa voleva quell’arpia della Rovelli? Quando ti chiamano in direzione è mai nulla di buono.» «Proprio così. Infatti la “signorina” mi ha informato, senza troppi preamboli, che sono indietro con i pagamenti e che se non provvedo a saldare entro la fine del mese, dovranno trovarmi una sistemazione diversa, forse a Canneto. Ma io a Canneto non ci voglio andare.» «Ma sì, non demoralizzarti: un posto vale l’altro.» «No! Laggiù fa sempre freddo, danno poco da mangiare e le OSS trattano male gli ospiti.» 285 «Oh, che vita!» condivide Ottavia scuotendo la testa «I tuoi che dicono?» Matilde si infossa nelle spalle «A loro sto già chiedendo troppo. È già tanto se riescono a tirare avanti. Mia figlia lavora in una cooperativa. Capirai, fa le pulizie in fabbrica: si spacca la schiena per quattro soldi. Adesso le hanno messo pure le domeniche obbligatorie. Con due figli deve fare i miracoli per sopravvivere.» «E tuo figlio? Dici sempre che è un tipo in gamba...» «Lo era. Ha lavorato per qualche anno in Olanda in una mutilazione…» «Multi-nazio-nale vorrai dire!» la corregge Ottavia tornando a vestire i panni della professoressa di lettere. «Sì quella. Ma… dov’ero rimasta?» chiede Matilde grattandosi la fronte. «In Olanda.» Ottavia comincia a provare una certa insofferenza a quei discorsi smozzicati, a quei racconti di vite ingannate, a quelle ricostruzioni invariabilmente incompiute: ricordi, rimpianti ed emozioni capaci soltanto di instillarle una tristezza infinita «Ora cerca di tornare in Italia, però!» dice tagliente alla compagna di sventura. «Ah sì, mio figlio… Ha fatto carriera, sai? Poi, sai come vanno queste cose: hanno delocalizzato l’azienda in India e… lui è rimasto a piedi.» «Che razza di mondo abbiamo costruito! Mi dispiace Matilde, vedrò se posso intercedere per te, ma sai com’è la Rovelli: quella vive per i soldi. Talmente avida che se potesse se li mangerebbe perfino! Ora vado ma mi raccomando, fatti coraggio eh?» Lasciata l’amica ai suoi affanni, Ottavia si dirige in corridoio quando su una delle panchine che costeggiano l’ingresso trova quello che fino a qualche mese prima era un anziano atletico e robusto, adesso infagottato in un golf di lana, il volto emaciato e la barba incolta da tempo.«Riccardo, come va?» «Come vuoi che vada: la bestia mi sta divorando un pezzo alla volta.» dice quello con lo sguardo perso nel vuoto. 286 «Su, su, coraggio, voglio vederti più ottimista. Alla nostra età i malanni viaggiano piano e ci lasciano qualche speranza.» «Non per me. Sento che sto arrivando alla fine.» Ottavia si appoggia al muro, assalita da una nausea invadente. “No, basta così, adesso la misura è colma” pensa con un lungo sospiro. “Io non resisto più, questa è una gabbia di matti, devo andarmene al più presto altrimenti impazzisco!” Sale in camera e, preso il cellulare, compone il primo numero in rubrica. «Va bene, mamma.» si sente dire con velata insofferenza da Susanna, la sua unica figlia «Ho un impegno dietro l’altro ma vedrò di trovare un momento per passare all’ospizio.» «Vorrei fermarmi un po’ da voi, ti dispiace?» «N-no mamma è che…» «Anche solo una settimana, il tempo di ritemprarmi un po’.» «Ok, tranquilla, se riesco vengo stasera stessa, tutt’al più domani mattina. Ti telefono quando parto.» “Strano” pensa Ottavia “stavolta non ha fatto troppe obiezioni. Di solito quando le chiedo di ospitarmi qualche giorno, Susanna trova sempre mille scuse…” Entusiasta per la vacanza che l’attende Ottavia prepara anzitempo la valigia e si siede sul letto, certa di ricevere a breve la telefonata della figlia. Un paio d’ore dopo la delusione ha la meglio sul suo entusiasmo. Il tempo scorre lento e incerto, come le ombre della sera. Un po’ di ritardo, Ottavia l’aveva messo in conto. Le esigenze di Susanna vengono sempre prima delle sue, ormai ci è abituata. Per una volta, però, sperava che la figlia sapesse regalarle qualche attenzione in più. Finalmente il vecchio smartphone, dismesso da Susanna per passare all’ultimo modello di i-Phone, squilla con un suono mesto e premonitore. «Scusa mamma, oggi proprio non posso. Vengo domani di sicuro. Alle nove sarò lì. Promesso!» «Hai cambiato macchina?» dice Ottavia prendendo posto accanto alla figlia «L’ultima volta che sei venuta a trovarmi, mi pare fosse inverno, ce l’avevi bianca.» «È quella che aveva 287 Lello.» “Lello!” pensa Ottavia “Che poi di nome mio genero fa Antonio. Come fanno a chiamarlo così? Antonio, Antonino. Antonello, Lello… Mah!” «L’ha passata a me e lui si è preso il Cayenne. Sai, è una Porsche ma a gasolio, così consuma un po’ meno.» Come se sua madre potesse capire l’incongruenza di una macchina sportiva alimentata a gasolio! «Come vanno le cose tra voi due?» chiede a Susanna soppesando le parole. «Insomma, così, così. Vanno. Ed è già tanto.» Ottavia stringe le labbra dispiaciuta per i problemi della figlia. Problemi coniugali e difficoltà economiche che conosce da tempo «Forse se provaste a vivere con un po’ più di modestia...» «Mamma! Ancora con questa storia!» sbuffa la figlia infervorandosi «Non siamo più nel ‘900. Ai tuoi tempi si viveva diversamente, oggi le esigenze sono cambiate. E poi abbiamo già affrontato il discorso e non è finita bene, ricordi?» «Eccome: abbiamo litigato e non mi hai più rivolto la parola per mesi.» «Ecco. Quindi evitiamo le paternali: non ne sento proprio il bisogno!» «Massì, fate come meglio pensate, è vostra la vita.» «Appunto!» chiude il discorso la figlia, con uno sguardo torvo. Ottavia fa un lungo sospiro, si aggrappa alla maniglia interna dell’auto e non apre più bocca. Curve prese a cento all’ora, frenate improvvise e brutali sgommate: Ottavia si sente sballottare peggio di un sacco postale. Sta quasi per abbassare il finestrino e prendere aria per non vomitare, quando finalmente la figlia inchioda nel cortile di casa. «Jacopo! Jennifer! Venite è arrivata la nonna.» chiama i figli Susanna entrando in casa. Ansiosa di rivedere i nipoti Ottavia rimane in attesa nell’atrio ma dalle scale non arriva nessuno. «Ragazzi scendete.» li blandisce la mamma senza troppo vigore «Niente. Va beh, quelli quando sono al computer o al cellulare non ci sentono. Neanche se li chiami col megafono.» 288 «Ma sì, non importa, avranno da studiare.» fa buon viso la nonna. «Studiare? Magari!» A fatica Ottavia sale le scale, entra nella stanza degli ospiti e comincia a disfare la valigia. «Ciao nonna.» si sente salutare dal nipote dopo un po’. «Il mio giovanotto! Stai crescendo a vista d’occhio.» dice a Jacopo che, invece di risponderle, si allunga sul letto e prende a smanettare sullo smartphone come un provetto dattilografo. «Allora, ti ricordi ancora di me?» «Certo nonna,» risponde infine Jacopo emergendo dal mondo virtuale «mi regalavi sempre 5 euro quando venivo a trovarti.» «E ora? Non sei più venuto a trovarmi.» «Per forza, cosa vuoi che ci faccia con 5 euro!» Nel frattempo Jennifer, la nipotina, entra a sua volta e senza salutare va a rimirarsi nello specchio dell’armadio. «Jennifer, piccola mia, come stai?» si azzarda a chiederle Ottavia. «Ti piace il mio vestito nuovo, nonna? Me l’ha comprato mamma per il ballo di fine anno.» «Lo trovo splendido, sarai ammirata da tutti. Ma tienilo bene, è di seta, una stoffa pregiata e piuttosto costosa.» La nipote fa spallucce «Tanto se si strappa la mamma me ne compra un altro!» «Ragazzi, la nonna si fermerà qualche giorno da noi. Contenti?» chiede, senza ottenere risposta, Susanna affacciandosi dalla porta «Finchè te la senti eh, mamma! Io non insisto. Sai, qui abbiamo sempre tanto da fare e non so se riusciremo a farti compagnia.» Non che Ottavia sperasse in qualcosa di diverso. Anzi, sapeva che la convivenza in quella casa sarebbe stata difficile. Conosce da tempo l’indifferenza dei nipoti e l’insofferenza della figlia. Quel che la preoccupa è l’atteggiamento del genero. Nonostante Ottavia abbia fatto di tutto per farselo piacere, quell’uomo la indispone. Il suo edonismo, la sua arroganza, sono atteggiamenti che non le appartengono e che 289 lei mal sopporta. Con il tempo, il loro si è fatto un rapporto di reciproca accettazione. Il problema, o almeno uno dei tanti, è che Antonio, alias Lello, ha da tempo messo gli occhi sulle sue proprietà e vorrebbe impossessarsene per costruire un villaggio residenziale. “Un villaggio residenziale! Figuriamoci! Lello è mai stato capace di realizzare qualcosa di buono?” si dice Ottavia, contenendo la stizza. Del resto, lei è ancora legatissima alla vecchia casa, al giardino che la circonda, anche se ormai le erbacce stanno divorando aiuole e roseti e tutto sta andando in rovina. Ma a Ottavia poco importa, in quella casa ha vissuto gli anni migliori, tra quelle mura ha costruito la sua famiglia «È arrivato Lello, mamma.» la distoglie dai pensieri la figlia. «La mia suocera preferita!» la saluta il genero abbracciandola con eccessivo calore. «Perchè? Ne hai altre?» ironizza, ma neanche troppo, lei. Il genero si ritrae e fa la faccia stupita, non si sa se per la sagacia della battuta o perché ci stia pensando. «Ma no, ma no. Una è più che sufficiente.» risponde facendole l’occhiolino per poi scoppiare in una risata fragorosa: «Allora tutto bene all’ospizio? Qualche settimana fa mi sono attivato per far arrivare a tutti gli ospiti la torta di un famoso pasticcere.» «Ecco, non farlo più. Quella sera siamo finiti tutti al Pronto Soccorso con le coliche addominali.» «Mi dispiace, era una torta avanzata dalla festa aziendale. E pure preparata da uno chef stellato. Mi è costata una fortuna. Avevo detto alla segretaria di metterla in frigo…» «Si vede che, invece, l’ha messa sul termosifone.» «Ascolta Otty…» «Non chiamarmi così! Io sono Ottavia!» «Hai ragione, scusami Otty… ehm, Ottavia. Io… vorrei parlarti di una questione un po’ delicata. Come sai è un momento difficile per me… per noi. La pandemia ha scombussolato un po’ tutto, ha ristretto i margini e ridotto le commesse.» spiega torcendosi le mani. «E quindi?» «Quindi ho pensato che tu 290 potresti darci una mano. Ormai la casa di Roddi è disabitata da tempo e…» «So già quel che vuoi dire, e la risposta è no!» lo interrompe Ottavia tranciante. «Non vuoi nemmeno valutare la mia proposta?» Ottavia crolla le spalle e raccoglie tutta la pazienza di cui è ancora capace. Mai avrebbe pensato, a ottant’anni compiuti, di doversi ancora sobbarcare trattative e discussioni. «Ascolta Antonio.,» abbozza sedendosi accanto al genero «quella casa l’abbiamo costruita io e quel sant’uomo di Osvaldo. Non posso disfarmene così su due piedi. Non adesso almeno. Devo pensarci su, vedremo…» «Rispetto la tua scelta Otty ma, in tutta onestà, a che ti serve ancora quella casa? Ormai sei all’ospizio da mesi e…» «E potrei togliere il disturbo da un giorno all’altro!» «No, scusa, non volevo dire questo ma, insomma…» «Lasciamo perdere. Quando arriverà la mia ora vi prenderete tutto quanto. Anche i pochi spiccioli che ho in banca. Contenti?» È sera e nella casa finalmente tutto tace. Ottavia dovrebbe trovare quella pace a lungo cercata, eppure un disagio nascosto la opprime tanto che il sonno le si fa un miraggio. Non è solo il cambio di letto a tenerla sveglia e nemmeno il mancato effetto delle compresse per dormire che talvolta le davano all’ospizio. No, l’ansia che l’inquieta è dovuta al battibecco avuto col genero all’ora di cena. Prende il bastone e si alza per andare in bagno: anche solo un bicchiere d’acqua a volte può aiutare. Calza le babbucce e a passo di lumaca per le gambe che fanno dannare, si trascina nel corridoio. Uno spiraglio di luce filtra dalla porta semiaperta della camera matrimoniale della figlia. Senza volerlo – o forse anche un po’ – sente un dialogo smozzicato echeggiare nel silenzio. Non ha mai avuto il vizio di origliare alle porte ma il discorso sembra riguardare proprio lei. Una frase in particolare: «Quanto pensa di restare?» che pronuncia suo genero la invogliano a prestare attenzione. «Che vuoi che ne sappia.» sente rispondere la figlia. 291 «Tutto sommato potrebbe anche fermarsi da noi per un po’: risparmieremmo un sacco di soldini sulla retta dell’ospizio.» “Ecco, adesso voglio proprio sentire cosa dirà Susanna” si dice Ottavia, ben sapendo che qualsiasi risposta sarà, per lei, un verdetto negativo. «Non ci pensare neanche! Con tutto quel che ho da fare, come potrei accudirla?» «Lo so bene. Ma prova a far due conti: duemila euro al mese per dodici fanno 24.000 euro all’anno. Con una cifra simile potremo risolvere più di un problema. E che vuoi che ci costi mantenerla: tua madre mangia come un canarino!» «Ok, va bene.» dice Susanna con un tono da maestrina «Ma sei disposto a sorbirti le sue prediche tutto il santo giorno? Non credo proprio. Oggi, ad esempio, ha di nuovo attaccato con la solfa del vivere sobrio, del non fare il passo più lungo della gamba, eccetera, eccetera…» «Ma sì, qualcosa andrà pur sopportato. E con lei in casa, avanzeremmo anche lo stipendio della baby sitter.» Ottavia realizza che con la famiglia di sua figlia si è ormai creata una distanza incolmabile, un vuoto affettivo difficile da colmare. Ancor più se gli sforzi vengono compiuti da una parte sola. È lunedì, i nipoti sono a scuola, la figlia è andata al centro commerciale e il genero al lavoro. Sola in casa, Ottavia prende la sua decisione. Sale in camera, prepara in tutta fretta la valigia e telefona a un taxi «Ottavia! Già di ritorno?» L’accoglie Irina, la Oss rumena che, da sempre, si occupa di lei. «Vieni, i tuoi amici ti stanno aspettando. Nel frattempo dai un’occhiata al menù del giorno: a pranzo minestrina di verdure, prosciutto e verdure lesse. A cena stracchino e purè. E per frutta mele cotte.» «Mmm, che leccornie, meglio che al Principe di Piemonte!» ironizza Ottavia e avviandosi nel corridoio incrocia una nonnina che si trascina in carrozzella «Ciao Agnese, eccomi di nuovo a casa. Ti sono mancata?» «Come dici cara? Il mio apparecchio ha le pile scariche.» 292 Ottavia annuisce con un cenno del capo e prosegue il cammino quando Emilio le viene incontro «Ciao carissima. Tutto a posto con la Luisa, eh!» la informa il Tombeur de femmes dell’R.S.A. «Poi ti racconto.» conclude facendole l’occhiolino. «Non vedo l’ora, sai? Non ci dormivo la notte per i tuoi tormenti sentimentali.» E scrollando la testa, Ottavia si dirige in camera, rincorsa dai discorsi degli altri ospiti: «È andato bene l'intervento alle emorroidi?» «Sì, ma adesso ce n'è un'altra: devo farmi operare alla cataratta.» «No, ma ti rendi conto? Una pensione così misera dopo aver lavorato la bellezza di 19 anni, 6 mesi e 1 giorno!» «È una vergogna! Ma da quanto tempo la percepisci?» «Eh, fammi pensare: sarà una quarantina d’anni.» «Ivina, Ivina: non tvovo più la mia dentieva!» I soliti discorsi allegri, le solite lamentele, il solito odore stantio. Eppure Ottavia non si è mai sentita a casa come adesso.
Amaro resoconto del ricovero in casa di cura di un'anziana, che diventa un buen retiro a fronte del cinismo e del mancato affetto da parte dei familiari.

2° Class.
“La donna che sono” di Maria Teresa Montanaro da Canelli (At)

LA DONNA CHE SONO…
Una pioggia insistente, tenace, convinta come la mia volontà di non esserci. Di essere altrove. Al di là di un recinto,di uno steccato,di un muro. Al di là di un confine, di un arcobaleno, di un cielo denso di nubi. Ci sono giorni che sembrano fermi, come vecchie carcasse di navi arruginite. Il tempo rallenta la sua andatura, scorre faticosamente e lascia spazio alla solitudine. Quella che mi accompagna da sempre come un'ombra! Sola. Voglio difendere questa mia solitudine con le unghie e con i denti. Da sola riesco a ritrovarmi.
Riesco a proteggermi dalle ansie che mi arrivano addosso. Lo so che sembra assurdo, che le persone sole cercano gli altri per sopravvivere. Ma io non sono sola: sono una donna dimezzata, amputata, sono un grido di dolore che non vuole essere sentito.
Sola. E’ per questo che tengo gli occhi chiusi. Perché il buio mi aiuta a nascondermi e a nascondere il mio dolore.
Il sollievo. L’unica maniera per ritrovarlo ormai è sognare … Ancora sognare.
Di giorno i ricordi sono terribili, fanno malissimo. Di notte no.
Nel sogno posso muovermi, posso correre. Quando sogno mi faccio compagnia vivendo nel passato ed entrando nel futuro. I sogni non hanno barriere di tempo. I sogni sono liberi.
Ormai con i miei sogni ho fatto un patto. Sono loro il mio riscatto. Sono loro l’unico luogo dove la mia immobilità vola via. Sogno sempre di immergere il mio corpo nell’acqua fresca del mare più trasparente, poggiare le piante dei piedi sul terreno nudo e sassoso, camminare più che correre.
Essere. Toccare e farsi toccare ancora e poi ancora … Nulla.
Perché non posso dimenticare tutto? Perché non mi accade di chiudere gli occhi una notte e di risvegliarmi col buio che ha cancellato tutto il passato? Invece ogni giorno la mia pena si sveglia. Ricomincia, tradita dai sentimenti e dai ricordi che i sentimenti si portano dietro. Ma è il ricordo a tenermi in vita, a scaldarmi quando ho freddo, a farmi volare appesa a una soffice nuvola, a lasciarmi l'odore di un momento. Com'è difficile tornare poi al presente, senza un ricordo a cui aggrapparsi.
Sono un astronauta che vaga nel cielo del dolore!Un organismo umano senza pulsioni né battiti oppure un cervello che corre e che supera il corpo, che vince e che impara a vivere con altri codici?
In me c’è tutto il male della morte e la piena coscienza della vita, ma vera vita non c’è.
Certe volte penso che se almeno potessi provare dolore, questa atroce immobilità sarebbe più viva.
Per tanti l’assenza di dolore è una consolazione. Per me invece il dolore è la misura di quanto l’uomo sappia soffrire. Sì, il dolore mi manca, lo vorrei.
E’ un terribile paradosso: però se provassi dolore avrei più armi e più forza per combattere.
“Torno a chiudere gli occhi”. Mi piace stare con gli occhi chiusi. Non è pigrizia, come molti pensano, ma voglia di stare da sola…
Di non vedere, di pensare, di proteggere la mia concentrazione.
Arriverà un giorno nel quale un prato verde, un lago o una montagna meravigliosa torneranno a parlarmi di felicità. Adesso sono lontana. Preferisco chiudere gli occhi. Non vedere. Non sapere.
Consolarmi solo nel mio buio e nella mia tristezza. Ostinata, densa di pensieri che spezzano il respiro!
“Paraplegica”. Questa è la parola che ha ucciso tutte le mie speranze.
Impossibile non ricordare che giorno era quello, l’ora, il momento, le pareti dipinte di verde, il gracidare delle lettighe, le voci. Appesa a un filo, tra la vita e la morte, tocchi con mano verità che in fondo sapevi. Il valore di un bacio, di una carezza, di una parola d'affetto... Il risveglio all’ospedale è stato soffice, quasi dolce e ovattato…
I miei occhi si sono aperti piano e la prima sensazione è stata quella di un vuoto intero, leggero… Nessun dolore, un’immobilità che non mi dava fastidio.
Il dottore, con quel camice bianco, trasparente come le sue bugie, mi ha spiegato con gentilezza, ma con fermezza, che non potevo muovermi. Credo di non aver avuto particolari reazioni davanti al suo discorso. Le sue parole sono rimbalzate sulla mia anima impotente: era come se avessi scartato quella fucilata, come se non avessi avuto orecchie…
Poi, di notte, da sola, sono arrivate la rabbia e la disperazione. Non voglio vivere senza vita.
Io, proprio io, che ho fatto della mia vita una corsa di sogni…
Posso solo sperare che la scienza mi faccia ritrovare la cosa più importante che una donna possiede: “la speranza”. Ma non posso… Non la vedo. Cerco di fingere che questo sia un viaggio, ma non vedo il ritorno. Per la prima volta non basta la passione, la voglia, il coraggio. Per la prima volta non bastano i sogni.
Adesso so che devo combattere la realtà. E questa si può riassumere con una parola sola: paralisi.
Così, mai come oggi ho guardato alla scienza, questa dea bendata che decide quando vuole della tua vita, che può scoprire in un attimo la pozione o il miracolo capaci di restituirti l’anima e la vita…Oppure che può, con la sua pigrizia e il suo cinismo, condannarti alla disperazione.
Certe volte mi capita di pensare che la speranza che cerco stia già dentro la parola “credere”. In quei giorni però Dio non lo trovavo. Ero abituata a scoprire Dio quando non lo cercavo. Lo vedevo in cima alla vetta di una montagna al tramonto, lo ammiravo nella schiuma candida delle onde del mare…Concludevo dicendomi che cercare Dio è già trovarlo: non era importante poi stringergli le mani, inchinarsi ai suoi piedi. Ma quella volta Dio aveva “permesso” che l’incidente accadesse, e io non riuscivo a capire questa sua decisione, non riuscivo a spiegarla. A perdonarla. Perché Dio aveva deciso di inchiodare su una sedia a rotelle per tutta la vita proprio me…perché?
“La sedia a rotelle è una dannazione…Non la voglio e credo che non l’accetterò mai. Non riuscirò mai ad abituarmi all’idea di sostituire una parte o una facoltà del mio corpo con un pezzo di freddo metallo”. Dopo tanti anni vissuti da sana non riuscivo ad afferrare che la vita era cambiata e che da quel momento le nostre strade non si sarebbero più divise. Ero stata un’ atleta, giovane e forte, con delle gambe formidabili, non accettavo il fatto che per i miei spostamenti il suo utilizzo fosse fondamentale, era umiliante per me, il mio orgoglio ribolliva. Ai miei occhi di allora, era la prova del mio fallimento.
Potrò mai rassegnarmi a vivere come una “diversa”?
Di giorno c’è la vita degli altri intorno a me, che è contagiosa. Di notte il nulla. Eppure vivo. Non sento dolore.
Da una parte il ghiaccio del corpo, dall’altra la fantasia e l’immaginazione che sopravvivono, ma che ormai sono come una febbre. E’ come stare dentro due pezzi tagliati di te stessa. Forse la mia anima diventerà così forte da superare il corpo, da vincerlo e metterlo a tacere?
Sono in un letto, nel mio letto. Ma per la prima volta anche lui si è arreso a ospitare immagini felici e piene di serenità. Sto guarendo dalla voglia di sparire.
Sto uccidendo la mia voglia di morire. I ricordi non sono più dolori insopportabili e arrabbiati. Anzi. Mentre una volta li fuggivo detestandoli, oggi mi accorgo che la mia mente li cerca nel passato prossimo e lontano sperando di portarne a galla i più belli.
La mia condizione mi mette davanti a prove terribili ma dentro la mia immobilità ho incontrato
e toccato sentimenti assoluti.
Non sento più il mio corpo come una vergogna, come un ostacolo… Certo, ci sono giornate in cui l'angoscia si impadronisce di me e io non riesco ancora a governarla. Ma mentre una volta ero spesso nel buio totale del " rifiuto" della vita, oggi riesco a capire, forse a illudermi che un giorno, domani o tra vent'anni, la situazione sarà diversa. La mente si quieta, vede le cose passate con chiarezza, quelle presenti come una grande conquista e guarda il futuro senza provare paura! Adesso con gli amici riesco ad abbandonarmi alla gioia di ritrovarli. In certi momenti dimentico perfino questa maledetta paralisi e rido. La mia vita ricomincia il suo viaggio! E vorrei che fosse quello un giorno fermo, dove il tempo scorre lento, per goderne il più a lungo possibile e smettere di sentirmi sola! Ho bisogno di nuove parole, di leggerezza, di risate sincere, di spegnere il cervello, di un cielo cosparso di stelle. Lasciarmi accarezzare dai raggi del sole, respirare ossigeno e sentirmi viva! Forse ho bisogno di compagnia, forse d'amore. O, più semplicemente, ho bisogno di libertà. Una libertà di cui pochi conoscono il gusto. La libertà di sempre
Sono pronta a scoprire sul tappeto verde della mia esistenza il nuovo gioco che il destino mi ha imposto. Dentro di me, superando momenti terribili e schivando la voglia di morire, è rifiorito il bisogno di
vivere. E’ una forza che sento dentro. E’ l’unica forza che fa muovere e palpitare il mio corpo muto: quella della vita. E certe volte è talmente forte che mi sembra improvvisamente di risorgere e camminare. Bisogna cercarla questa forza, questo pugno vitale. Ognuno di noi ce l’ha nascosta da qualche parte. Certe volte la si troverà presto, certe volte, come è accaduto a me, la si troverà e si farà finta di non averla sentita. Si ammutolirà, si schiaffeggerà, si umilierà, ma se la nostra anima ha uno spiraglio di luce, e tutte le anime hanno, fra le nebbie, spiragli di luce, quella forza vitale troverà la sua strada per scoppiare. E la luce, lasciata libera, illuminerà tutte quelle piccole cose che nella vita di prima non si potevano vedere…
Tutti noi abbiamo “diritto alla vita”, ma bisogna soprattutto avere il dovere di vivere, non dobbiamo lasciarci andare, trasportati dalla corrente del fiume della vita verso il mare, dobbiamo provare a nuotare contro. Si ha la sensazione di non avanzare, ma si ha la certezza e la grande soddisfazione di aver provato a prendere le briglie della propria esistenza tra le mani, di aver cercato di essere protagonisti delle proprie scelte.
Una cosa è certa: nonostante le mie funzioni non siano più quelle di una volta, sono fiera di poter dire che sono ancora “una donna”. Donna "senza corpo" prigioniera di un sogno cattivo.
Non è facile dirsi “però posso mangiare e sorridere”.
Non è facile quando sei viva dentro e morta fuori.
Non è facile, ma per una forza sconosciuta e misteriosa provi a fare sì che lo diventi a poco a poco, provi a fregare il destino che ti ha tirato un brutto scherzo.
Provi a vivere e continui a sperare. Se da un ritaglio di vita riusciro' a dare un segnale, una rinnovata voglia di sperare, la forza per vivere e non mollare, avrò assolto il mio impegno, e un altro momento di questa vita così travagliata e così punita si sarà compiuto! Immensi e infiniti spazi dove volare senza limiti. Un volo immobile, che invece porta lontano...
Ed ora eccomi qua, non sarò più quella di prima, ma sono validissima ugualmente, ed ho vinto una battaglia, la battaglia per la vita!

Diario sofferto e vivo della malattia che blocca fisicamente, ma lascia spazio al sogno, alla vita interiore, alla ricerca di amore ma anche di libertà e verità.

1° Class.
“Vecchia solitudine” di Silvio Di Fabio da San Salvo (Chieti)
VECCHIA SOLITUDINE
La neve invernale attutisce il suono. Non l’acufene persistente nella mia testa, il cui volume è gradualmente aumentato con l’età. Quel suono è sempre con me. La mia coperta di comfort perversa.
Oggi mi accompagna mentre cammino, da solo, nel parco. Il prato che circonda lo stagno delle anatre giace come una soffice coperta per bambini, in dolci ondulazioni di un bianco puro. Almeno per ora. Una volta che i bambini avranno finito con le molliche di pane per le anatre, davanti alle loro madri disattente, la superficie sublime sarà irriconoscibile.
Sembro senza scopo. Non ho nipoti da portare a passeggio, nessun cane al guinzaglio. Ho un libro, a caratteri cubitali, e abbastanza soldi in tasca per una cioccolata calda al bar. Posso far durare una cioccolata calda per circa venticinque pagine di carta. Quaranta minuti, o giù di lì. La passeggiata da casa mia al caffè nel parco dura trenta minuti. Il ritorno, in salita, dura venti. Se mi fermo in edicola a comprare un giornale sulla via del ritorno e dietro il banco c’è la signora Pina, allora posso tranquillamente “ammazzare” altri trenta minuti. Aggiungi la doccia che faccio ogni mattina e il caffè che preparo sul fornello ed è quasi finita la mia mattinata.
Come si è ridotto il mio mondo. Un tempo si riempiva di corse, dalle nove alle cinque di un lavoro dietro una scrivania in un ufficio, allenando i bambini nel fine settimana. Ora, sono fortunato se una volta al giorno parlo con un altro essere umano. Le mie uscite sociali si sono ridotte ai funerali di vecchi conoscenti e colleghi della mia vita precedente.
Cammino nel parco tutti i giorni. È la mia routine, pioggia o sole. Percorro i suoi sentieri, ascolto le voci degli alberi che costeggiano il viale principale che porta alla casa di campagna trasformata in museo comunale. Sono fortunato che i residenti locali possano entrare in casa gratuitamente, poiché è diventata il mio rifugio quando il tempo non è adatto per una passeggiata più lunga. Mi dispiace che i tagli del Governo abbiano costretto il Consiglio Comunale a chiudere la casa tre giorni alla settimana, perché in quei giorni sono lasciato in balia degli eventi, qualunque essi siano.
Oggi fa freddo, ma è luminoso, quasi accecante, con il sole che si riflette sulla neve. Procedo oltre lo stagno delle anatre, il caffè, la casa e prendo il sentiero che porta nel boschetto. L’asfalto si trasforma in pietra grezza costellata di buche, che si sono riempite d’acqua e si sono trasformate in ghiaccio durante la notte. Batto il tacco del mio scarpone da passeggio in coppia, osservo la frattura del ghiaccio e l’acqua che affiora in superficie. Offre da bere agli uccelli se ne hanno bisogno. Cinciarelle, passeri e fringuelli mi osservano, dai rami spogli, e, decidendo che non sono una minaccia, scendono a riposare nelle fontanelle che ho costruito. Una ghiandaia vola sopra di me, un lampo blu che si registra con la coda dell’occhio. Ho tempo per guardare gli uccelli in questi giorni. Nel mio giardino, trascorro molto tempo a lavorare su varie combinazioni di cuori di girasole, semi e palline di grasso, cercando di attirare i “visitatori”. Mi siedo al tavolo della cucina e osservo i corvi che tentano di far cadere il seme dalle mangiatoie fino a terra dove beccano rumorosamente. Spaventano gli uccelli più piccoli e se un passero o un fringuello osa avvicinarsi, stridono e sbattono le ali, come i bulli del parco giochi.
Qui, nel bosco, c’è abbastanza spazio per tutti. Gli uccelli sono più coraggiosi: sono nel loro territorio di casa. Anche il vivace pastore tedesco davanti a me, che salta e corre all’impazzata intorno alla sua padrona, non sembra preoccuparli, e bevono indisturbati. Il pastore mi osserva mentre mi avvicino e inizia a correre verso di me, con un’andatura svelta, le orecchie che sbattono e la lingua coriacea che pende fuori. La sua padrona, una donna con la giacchetta rosa fluo che rifletteva la luce, grida inutilmente nella mia direzione.
«Zeus! Torna qui, Zeus! Lascia stare quell’uomo».
Ma Zeus sembra sia intenzionato a cercare me. Il mondo rallenta e il ronzio nelle mie orecchie è temporaneamente sostituito dalla colonna sonora di “Momenti di Gloria”, mentre Zeus fa un balzo, la saliva che vola, felicissimo di vedermi.
È un cliché, lo so, ma non sono così saldo sui miei passi come una volta. Faccio un passo indietro, il mio piede sinistro si incastra su una pietra grezza e comincio a perdere l’equilibrio. Lascio cadere il mio libro e allungo le braccia come il più vecchio funambolo del mondo, ma non finisce bene. Le zampe di Zeus si posano sulle mie spalle e il suo tocco è sufficiente per farmi volare all’indietro. Il mio cappotto si strappa su un rovo durante il volo, e mentre atterro, con il mio corpo miracolosamente attutito dalla neve, la mia testa si schianta contro un vecchio tronco d’albero, scolpito a forma di gufo. Giacevo supino, stordito, gli occhiali nella neve da qualche parte. Il gufo mi fissa, distaccato.
La donna, con la giacchetta rosa, comincia a gridare, mentre corre per raggiungermi. Zeus mi sta leccando la faccia. Non sopporto i cani. Soprattutto quelli che ti leccano. Ma sono troppo scosso per respingerlo. Il mio libro giace in una delle fontanelle che ho creato così premurosamente, e mi chiedo cosa siano quei suoni che continuavo a sentire.
C’è un accenno di sapore metallico nella mia bocca e mi lecco le labbra: devo essermi morso quando sono caduto. La donna si china su di me, la fronte corrugata dalla preoccupazione:
«Caro, come stai?»
«Non mi sento tanto bene. Però, vedere il tuo viso mi fa sentire subito meglio», risposi con voce flebile e compiaciuta.
I suoi occhi si fissano nei miei e accenna un falso sorriso.
«Non è niente, ne sono sicuro. Solo un piccolo taglio. Penso che potrei semplicemente tornare di corsa al bar e chiedere aiuto. Vorrei tirarti su, ma ho mal di schiena e da sola potrei non farcela.»
La donna prova a distogliere il suo ribelle Zeus, che continua a leccarmi e prova a ripulirmi. Mi sento vulnerabile, supino, sdraiato sulla neve, dipendente da un estraneo. Provo ad alzare la testa, ma la donna grida in preda al panico.
«Non muoverti!». Poi più dolcemente: «Cerca di stare fermo, tesoro. Torno tra un minuto. Lo prometto».
E lei tira il guinzaglio di Zeus, e poi vanno via, correndo attraverso i boschi, lontano da me.
Provo a concentrarmi, cercando di individuare il suono confortante che proviene da dentro di me, per sentire qualcosa di familiare.
Tutto ciò che riesco a udire è il silenzio. Gli uccelli mi hanno abbandonato come un corpo morto, anche se sono venuto in loro aiuto. Riesco a sentire la neve inzuppare il retro del mio cappotto e all’improvviso mi sento molto solo. La mia mente si riempie del panico sul viso della donna mentre mi guardava, e mi chiedo dove sia finita. Cinque minuti sono trascorsi, altro che un minuto. Vorrei davvero provare a rialzarmi, ma la testa continua a pulsare e mi sembra quasi di svenire.
Senza nient’altro da fare che attendere l’arrivo dei soccorsi, entro nella modalità “scenario peggiore”. Non ho il portafoglio con me, solo poche monete in tasca. Se dovessi morire, come farebbero a scoprire chi sono? Qualcuno denuncerà la mia scomparsa? Mio figlio vive all’estero, nella frenetica Londra. Nel suo diario ricco di impegni, a malapena trova il tempo di telefonarmi due volte l’anno, compleanno e Natale. Bene, il Natale è appena passato e il mio compleanno non è prima di maggio. E la signora Pina dell’edicola? Se non passassi da lei per un giornale, potrebbe pensare che sia successo qualcosa. Forse la ragazza al bar potrebbe accorgersene. La gentile ragazza che, da un anno, mi prepara la cioccolata calda tutti i giorni, ma non conosco nemmeno il suo nome. Dopodiché, faccio fatica a pensare a qualcuno che potrebbe davvero notare che non ci sia. Della mia ristretta cerchia di amici sono l’ultimo ancora in piedi. È davvero deprimente. Questo significa che siamo vicini alla fine.
Ricordo un programma che ho visto solo poche settimane fa. Parlava di quasi cento casi di cadaveri non identificati, segnalati ogni anno. La maggior parte dei corpi viene trovata da passeggiatori di cani, da runner e da raccoglitori di funghi, di solito nel tardo autunno o in inverno, quando il fogliame è scomparso.
Non conosco la donna bionda con il cane. E se non tornasse mai più? Sembrava davvero in preda al panico. Forse dovrei pensare che il mio trauma cranico sia grave. Forse pensa che potrei denunciarla. Sto cercando di ricordare il suo aspetto, ma la luminosità della sua giacchetta ha messo in ombra i lineamenti del suo viso. La mia mente fatica a ricordare. La mia memoria non è quella di un tempo. Un altro cliché, un’altra verità. A volte prendo il caffè due volte. Non per piacere. Me ne accorgo solo quando mi appresto a lavare la tazza e ne trovo una identica incrostata nel lavandino.
Ora mi sento stanco e i miei occhi tremano per un’istante, prima di chiudersi. Mi chiedo se sia l’equivalente di un mordi e fuggi. Forzo i miei occhi ad aprirsi di nuovo e ad ascoltare attentamente. Devo cercare di stare all’erta. Dovrà pur esserci qualcun altro nel parco. Un altro dog sitter o un runner.
Voglio disperatamente che qualcuno venga adesso. Faccio un patto con me stesso. Se la donna con il cane dovesse tornare, proverò a fare uno sforzo e chiederle di uscire insieme. Non sarò scontroso quando la signora Pina mi darà il giornale nell’edicola. E la prossima volta che andrò a prendere una cioccolata calda, saluterò la ragazza del bar e le chiederò il suo nome. Potrei essere vecchio, ma non voglio essere solo. Non più. Voglio davvero che qualcuno un giorno si ricordi di me.
Istantanea precisa, quasi anatomia delle giornate e del tempo di un uomo solo, alla ricerca di un barlume di affetto proveniente da un'altra vita, foss'anche quella di un animale, nella necessità di lasciare di sé il ricordo.

Poesia in lingua piemontese Giudizi di Sergio Donna
4° class. - “Cosa succede nel mondo” di Adelino Mattarello da Chieri (To)
Ricordate il piccolo Gian Burrasca che incitava i compagni di collegio a rifiutare gli insipidi menù a base di riso e ad invocare a gran voce la ben più gratificante “pappa al pomodoro”? Allo stesso modo, e a maggior ragione, l’Autore si ribella ai nuovi cibi a base di ortotteri e alle bistecche sintetiche, e decanta il sapore dei sostanziosi piatti della cucina tradizionale piemontese.
4° class. – “S-cianforgnèt” Anna Maria Molino di Piovà Massaia (At)
Curioso componimento che rispolvera la figura dei “settimini”. Così venivano chiamati nel Novecento coloro che venivano alla luce dopo solo sette mesi dal concepimento. Il loro fisico, decisamente sottopeso alla nascita, in genere restava minuto e fragile per tutta la vita. Secondo la tradizione popolare, si riteneva però che i settimini godessero di poteri taumaturgici e fossero, in particolare, in grado di curare la sterilità. In questa lirica, l’Autore riporta alla luce termini ormai dimenticati e fa rivivere il personaggio di S-cianforgnèt, in bilico tra ironia naif, sarcasmo, realtà e leggenda. Figure, immagini e ricordi dimenticati di vita novecentesca ricostruiti con competenza e efficacia.
4° class. – “In cerca di te” di Livio Rossetti da Novara
Versi leggeri, romanticamente delicati, come i passi del Poeta che lo conducono su sentieri forse già calpestati, alla ricerca di cieli, stelle e voci nuove. Ma anche e soprattutto per ritrovare lo sguardo dolce degli occhi che lo hanno amato.
4° class. - “Uno sguardo sull’infinito” di Luciano Milanese da Poirino (To)
La maestosa visione del Re di Pietra che domina la chiostra della Alpi e la sottostante pianura, in certe luminose giornate di primavera, è talmente suggestiva da sollevare forti turbamenti emotivi e quasi un senso di mancamento. Il Poeta, ammirando la regale sagoma della montagna, si lascia scivolare nel fascino dell’infinito, svelandoci le sue intense emozioni interiori con versi lirici e toccanti, usando magistralmente un lessico ricercato e letterariamente efficace.
4° “Storie d’altri tempi” Marisa Sacco da Moncalieri (To)
Un componimento in bilico tra lirica e racconto poetico, in cui l’Autrice rievoca, con un lessico curato e appropriato, lontani ricordi d’infanzia e momenti di vita rusticana, semplice e bucolica, trascorsi in compagnia dei nonni.
3° “I papaveri” Luigi Ceresa da Novara (LEGGE LA POESIA)
Targa offerta dalla cascina del conte di Francesco Li Causi
Ij papàvar

I hin dì
ch’igh hò dabzògn
madomà dë mi,
dë scoltam, dë brasciam,
dë saram sù denta dë mi
e restà sol.

Ninsun penser
ninsuna paròla
madomà mi e ël silenssi,
e col vòi, col vòi
ch’i capissi mia s’l’è
denta ò fòra dë mi.

Dla finèstra i ës-ciari prà
insanguinà dë papàvar.
I sari j’eucc:
i senti ël mè coeur
ca sa strengia…sa slarga…
e al bata sémpar pussè dasi…


I papaveri

Sono giorni
in cui ho bisogno
solo di me,
di ascoltarmi, di abbracciarmi,
di rinchiudermi in me stesso
e restare da solo.

Nessun pensiero
nessuna parola
solo io ed il silenzio,
e quel vuoto, quel vuoto
che non capisco se è
dentro o fuori di me.

Dalla finestra vedo prati
insanguinati di papaveri.
Chiudo gli occhi:
sento il mio cuore
che si chiude…si apre…
e batte sempre più piano…

Vers poetich e satì, che a sotligno l’urgensa dël Poeta, an certi di ‘d malinconìa, ëd nutrisse ‘d solitùdine e lassesse cuné an col veuid che a dandan-a tra ‘l dintra e ‘l fòra ‘d noi midem; e vardé fòra dla fnestra për perd-se con la fantasìa ant ij pra bariolà ‘d papàver ross come ‘l sangh.
Intensi e poetici versi che sottolineano l’urgenza del Poeta, in certi giorni di malinconia, di nutrirsi di solitudine e di crogiolarsi in quel vuoto che oscilla tra il dentro e il fuori di se stessi. E guardare fuori dalla finestra per perdersi con la fantasia nei prati rosseggianti di papaveri.

2°) Class. - “Una coppia fatta di quattro” Luigi Lorenzo Vaira (LEGGE LA POESIA)



Na cobia fàita ʼd quatr

Quaidun a podrìa pro pensé… chi sa
che miraco i sio ëvnùit na frisa mat
s’i disèisso che ʼmbelessì, a nòstra ca,
a viv na cobia stran-a fàita ʼd quatr

nopà a l’é parèj, i son da bon sincer,
da già che mi e mia fomna i soma doi
ch’a riesso nen a chërde ch’a sia ver
che coj-là, ant lë specc, i sio pròpi noi.

I-j vardoma soens sensa savèj chi a sio,
con soa caviura grisa e la pel da vej
a l’é nen possìbil che lor-là a në smijo
noi i soma ʼncamin a vive j’agn pì bej:

passiensa s’i podoma nen fé tant travaj
an nòstra vita i l’oma già ruscà bastansa
adess a l’é ʼl temp d’argalesse, se mai,
e ʼd pì nen pensé mach a ’mpinì la pansa,

a l’é ora d’andé a spass ant la natura
e balé torna an piassa coma doi giovnòt
lese ʼd lìber, cudì pì tant la coltura,
mangé sin-a tard e vijé fin-a a tre bòt.

Fà nen s’i surtima a caté con patin,
braje curte, caussèt e canotiera
ël bel a l’é sentisse lìber dë sté bin
gustand-se tut ël bel ʼd na vita vera.

Quaidun a pensa pro ch’i sio na frisa mat,
ma an nòstr ëspecc i s-ciairoma doi amis
che ʼnsem a noi a son na còbia fàita ʼd quatr
e a manco mai ʼd regalene sò soris…

Una coppia fatta di quattro

Qualcuno potrebbe pensare che chissà / magari saremmo diventati un po’ matti
se dicessimo che qua, a casa nostra, / vive una coppia strana fatta di quattro

invece è così, sono proprio sincero, / dato che io e mia moglie siamo due
che non riescono a credere che sia vero / che quelli là nello specchio siamo proprio noi.

Li guardiamo spesso senza sapere chi essi siano / con i capelli grigi e la pelle da vecchi
non è possibile che quelli là ci assomiglino / noi stiamo vivendo gli anni più belli:

pazienza se non possiamo più fare molto lavoro / nella nostra vita abbiamo già faticato abbastanza
adesso è tempo di divertirsi semmai / e di non pensare più soltanto a riempire la pancia,

è ora di passeggiare nella natura / e ballare nuovamente in piazza come due giovanotti
leggere dei libri, preoccuparsi maggiormente della cultura / mangiare cena tardi e vegliare fino alle tre.

Non importa se usciamo di casa con ciabatte, / pantaloncini, calze corte e canottiera
il bello è sentirsi liberi di star bene / gustando tutto il bello di una vita vera.

Qualcuno pensa certamente che siamo un po’ matti / ma nel nostro specchio vediamo due amici
che insieme a noi sono una coppia fatta di quattro / e non mancano mai di regalarci il loro sorriso.

Vardesse ant lë specc e nen arconòsse, tant da trasformé na vita ‘d cobia ant un curios rapòrt a quatr. Costa poesìa a sotantend un valor didascàlich: ëd vòlte le aparense an pijo ‘d bala. L’aspet esterior quajvòlta a peul ëstermé la vera età anagràfica. Ma se un as sent pì giovo andrinta përché a sà che a l’é an camin a vive j’ agn pì bej ‘d soa vita, antlora le mistà ch’as rifleto dzora në specc a son mach ëd bigieuje sensa sostansa, a le quaj a l’é giust soride con bonaria ironìa.
Guardarsi allo specchio e non riconoscersi, al punto da trasformare un ménage a due in un curioso rapporto a quattro. Questa poesia ha un recondito valore didascalico: a volte le apparenze ingannano. L’aspetto esteriore talora tradisce la vera età anagrafica. Ma se ci si sente più giovani dentro perché si stanno vivendo gli anni più belli della nostra vita, allora le immagini sullo specchio sono solo impalpabili riflessi, a cui sorridere con sorniona ironia.







1° ) Class. - “Tramont” di- Daniele Ponsero da Torino (LEGGE LA POESIA)
Targa offerta dalla pasticceria Daniella di Asti



Tramont

Nìvole rosse,
e fiòca bianca
sël Ròciamlon...
Më strenzo ai pensé
e ... T'artrovo,
montagna mia,
a cudìme l'àtim
prima che la lus
a ven-a a manché...

Tramonto
Nuvole rosse,
e neve bianca
sul Rocciamelone...
Mi stringo ai pensieri
e ... Ti ritrovo,
montagna mia,
ad accudirmi l'attimo
prima che la luce
venga a mancare...





Penelà ‘d poesìa, con matèriche paròle, mojà con sapiensa ant un-a taulòssa polìcroma d’Artista: quand che për compon-e na ciadeuvra a basto pòchi tòch sapient.
Pennellate di poesia, con materiche parole, intrise con sapienza in una policroma tavolozza d’Artista: quando per comporre un capolavoro bastano pochi tocchi sapienti








narrativa in lingua piemontese Giudizi Di Michele Bonavero
4°) Class.: “Rocheto e il Torino” di Luciano Milanese da Poirino (To)
3°) Class.: “la mùsica parèj ëd na meisin-a” di Gabriele Gariglio da Sommariva del Bosco (Cn)
LA MÙSICA PARÈJ D’UN-A MEISIN-A

Lorens a l’é na masnà d’óndes agn ch’a frequenta le scòle medie ëd sò pais. Cost cit a l’é ‘l fieul pì grand tra ij frej e le seure ‘d soa famija, a son quatr ant ëcà, chiel, Anna d’eut agn, Maté ch’a l’ha doi agn e soa mare Teresa. Già, a-j manca ‘l pare. Nen che Teresa a sia vidoa, ma la situassion a l’é bin diversa contut ch’a sia nen na blëssa.
Ciano a l’é mai stàit un pare model, a travajava ant na società ‘d traspòrt e a stasìa fòra ‘d ca sinch dì a la sman-a con sò bìlich, a fasìa dij traspòrt internassionaj ch’a lo portavo fin-a ant l’est Euròpa.
Peui al saba, ch’a l’era ‘d ripòs, a degnava nen ëd në sguard soa famija, përchè a surtìa con j’amis për andé a sbeivassé ant le piòle e la dumìnica guai a gaveje la partìa ‘d balon a lë stadi, parèj a tornava normalment a ca al saba sèira rabastand le muraje e spussand ëd Vecchia Romagna e la dumìnica anrabià për un rigor negà o përchè ij “sò” a l’avìo perdù e a së sfogava con la pòvra Teresa, maltratand-la e sbëstiassand-la sensa gnun rigret.
Pròpi mersì a costa manera ‘d fé da lingera, Ciano, doi agn fa, a abandonava soa famija antramentre che Teresa a spetava Maté, e ch’a l’era già ‘d set mèis!
Ciano an coj dì lì a vnisìa torna pare, ma la neuva creatura a nassìa da na fomna ungherèisa ch’a l’avìa conossù (fin-a tròp bin) durant un dij sò viagi con ël bìlich.
Na situassion bin complicà cola ch’as presentava a Teresa e soe masnà e dòp la nàssita ‘d Maté Teresa a robatava ant la depression e ant lë sconfòrt.
Lorens as treuva parèj a fé un pòch da pare e motobin da consolator vers soa mare, ma dësmentioma nen ch’a l’ha mach neuv agn e a resta l’òm pì grand dla ca.
Cost pòvr cit a l’ha sèmper patì, ant j’agn andaré, la lontanansa dal pare, e vëdde ij compagn dj’ elementar pì fortunà, përchè a l’avìo ij genitor present, a lo fasìo sente divers.
Ma adess Lorens a fà prima media, ij compagn dë scòla a son cambià, as treuva materie neuve da studié, magìster neuv, amis neuv.
Amis për mòdo ‘d dì.
Përchè ste masnà a l’han n’età stùpida, a chërdo d’esse grand e as pijo gieugh ëd Lorens.
Chiel, tìmid, con sò uciaj spess, con tut ël fardel dij sò sagrin carià ‘n sla gheuba, a l’ha gnun-e reassion ai dëspresi ch’a-j fan ij sò compagn, a-j ës-cianco le pàgine dij quadern, a-j pijo la merenda dal bërsach, fòra dla scòla a lo speto an quatr o sinch e a lo arbiton-o fin-a a felo robaté an tèra.
“Àuss-te da lì!” a-j crija Cesco (ël pì gram dla scòla! N’aso patentà, a l’é la tersa vòlta ch’a fa prima). “It ses gnanca bon a sté drit!” e con na rijada maligna e la sigarëtta an boca: “Ancheuj it ses pijate quatr an geografìa, va a ca a studié pantalon!”
Eh, da che pùlpit a ven la prédica!
Lorens a travond ël bocon amèr sensa tiré fòra na lerma.
Ma an realtà Lorens a l’ha nen gròsse dificoltà a scòla, combin che mare Teresa a peul nen sèmper steje da press për giutelo a studié, a-i son doe masnà pì pcite da goerné e l’òm ëd ca as la gava bin con jë studi.
Soa materia preferìa a l’é mùsica, përchè chiel con la mùsica a l’é chërsù.
Mare Teresa tute le sèire, ora d’andé a deurme, a anviscava lë stéreo butand un disch ëd mùsica clàssica, ch’a fasìa da sot-fond a le conte e le filastròcole che chila a contava a soe masnà, cogià tuti ansema ant ël let matrimonial.
Vàire vòlte a son stàit tuti quatr andurmì con la mùsica ‘d Mozart o Bach ch’a-j compagnava ant ij seugn antramentre che Ciano a vagava për l’Euròpa.
E ant la testa ‘d Lorens la mùsica a l’ha butà le rèis.
Soa nòna a l’avìa regalaje un piano për la prima comunion e Lorens a tocava coj tast bianch e nèir con na dlicatëssa e un ghëddo ch’a fasìo pensé a le dòti d’un musicista motobin barbis.
Ma a scòla a fan soné ‘l flàut e nen ël piano.
E Lorens a l’ha gnun-e dificoltà a fé score sò dij arlongh la cana dlë strument tant che ‘l magìster a-j fa sèmper ij compliment për coma ch’a son-a.
Ma sòn a dà motobin gena ai sò compagn, dzortut a Cesco che nopà a son-a con un disgust da pel d’oca, fasend subié ‘l flàut sensa deuit, da dëstachete j’orije.
Lorens a preuva grassiosament a coregilo: “Sofia pì pian, buta na frisa ‘d passion e ‘d cheur ant ël son”. E Cesco: “Fate ij tò afé aso! Sossì a l’é na merda dë strument, a serv a gnente sofié andrinta sto tubo” e antramentre, con soa sòlita gramissia, a-j fica un causs ant na cavija.
J’agn a passo e Lorens a l’ha oramai compì vintetré agn e a l’é diventà un musicista professionista, a l’é diplomasse ëd piano al conservatòri e a l’ha miliorà soa técnica con dij cors ëd përfessionament.
Ma sò but a l’é nen col-lì ëd fé dij concert an gir për ël mond o vnì famos.
Chiel a veul dovré la mùsica për fé sté mej la gent, dovrela coma cura për le përson-e an dificoltà, coma chiel a l’era stàit giutà da cit an cole neuit passà a sente soa mare pioré da stërmà antramentre ch’a carëssava soe masnà compagnà da le nòte d’un vàlser viennèis o da un concert për violin e piano.
Parèj Lorens a riess a realisé sò seugn, col-lì ëd mostré la mùsica a chi ch’a l’ha damanca ëd dësmentié ël passà, a coj ch’a l’han damanca ëd liberesse dai crussi: Lorens a va a mostré la mùsica ant le përzon ai përzoné.
A sarà na combinassion, a sarà che ‘l destin a veul che ij doi as ancontrèisso a distansa d’agn, ma Lorens un dì, intrand ant na cela dla përzon, as treuva dë dnans col bastard ëd Cesco.
Ij doi as arconòsso sùbit, Cesco a peul nen chërde che Lorens a sia lì con chiel daré ‘d cole bare a mostreje mùsica, al contrari Lorens a savìa bin ëd trové Cesco an col ambient malsan, përchè a savìa che sò vej compagn dë scòla a l’avìa rubà, smercià ‘d dròga e violentà na fija fòra dl’università, për la qual a l’é ancamin ch’a sconta la pen-a.
Lorens as seta ‘nsima a cola banca ‘d bòsch camolà ch’a fasìa da poltron-a ant la cela e a tira fòra da na valis na pianòla elétrica e a taca a soné Mozart dnans a Cesco.
Peui a-j dis: “I l’heu portate un cadò” e da cola valis a tira fòra un flàut, col flàut ch’as sonava a le scòle medie e a-j lo smon a Cesco. “It arcòrde coma as fa? Son-a!” a-j dis.
E Cesco a sofia da disperà coma ai temp dla scòla. “No, no, dossman!! It arcòrde quand mi it disìa ëd sofié pian, con deuit, con ël cheur, e ti t’im pijave a causs ant le cavije? Fate cont ëd sofié ansima a la fior d’un girasol dij pra, coj che a la prima a fan la bala bianca con ij piumin, sofia dlicatament e le nòte ch’a surtiran dal flàut a saran coma coj piumin dël girasol, a së spantio ant l’aria lìber e seren”.
Cesco a sofia torna ant ël flàut con pì deuit e le nòte a taco a seurte polide.
Lorens a-j bësbija ant n’orija: “Sara j’euj e pensa a le nòte ch’a vòlo ant l’aria, vers la libertà…”
Cesco a sara j’euj e a son-a ‘l flàut coma ch’a l’avìa mai fait ai temp dla scòla, e antramentre che sò dij a scoro ordinà an sij përtus dël flàut dai sò euj sarà a colo bondose dle lerme e le nòte a vòlo legere ant la përzon, coma na poesìa, coma ij piumin dël girasol.
Lorens a l’ha savù doné la libertà dla ment, për alevié le pen-e, për dé la libertà a j’ànime ëd coj còrp che la libertà a l’han pì nen.

LA MUSICA COME UNA MEDICINA

Lorenzo è un bambino di undici anni che frequenta le scuole medie del suo paese. Questo bambino è il figlio più grande tra i fratelli e le sorelle della sua famiglia, sono in quattro in casa, lui, Anna di otto anni, Matteo che ha due anni e la loro mamma Teresa. Già, manca il padre. Non che Teresa sia vedova, ma la situazione è ben diversa nonostante non sia una bellezza.
Luciano non è mai stato un padre modello, lavorava in una ditta di trasporti e viveva fuori casa cinque giorni alla settimana col suo camion, faceva dei trasporti internazionali che lo portavano fino nell’est Europa.
Poi al sabato, che era di riposo, non degnava di uno sguardo la sua famiglia, perché usciva con gli amici per andare a bere nei bar e la domenica guai a proibirgli di andare allo stadio per la partita di calcio, così tornava normalmente a casa il sabato sera senza reggersi in piedi dall’ubriachezza puzzando di Vecchia Romagna e la domenica arrabbiato per un rigore negato o perché i “suoi” avevano perso e si sfogava con la povera Teresa maltrattandola e offendendola senza nessun rimorso.
Proprio grazie a questa maniera di fare da poco di buono, Luciano, due anni fa, abbandonava la sua famiglia proprio mentre Teresa era incinta di Matteo, e la gravidanza era già al settimo mese!
Luciano in quei giorni veniva nuovamente padre, ma la nuova creatura nasceva da una donna ungherese che aveva conosciuto (fin troppo bene) durante uno dei suoi viaggi col camion.
Una situazione ben complicata quella che si presentava a Teresa e i suoi figli e dopo la nascita di Matteo Teresa cadeva nella depressione e nello sconforto.
Lorenzo si trova così a fare un po’ da padre e molto da consolatore verso sua mamma, ma non dimentichiamo che allora aveva solo nove anni e resta l’uomo più adulto della casa.
Questo povero bambino ha sempre patito, negli anni passati, la lontananza dal padre, e vedere i compagni delle elementari più fortunati, perché avevano i genitori presenti, lo facevano sentire diverso.
Ma adesso Lorenzo fà prima media, i compagni di scuola sono cambiati, si trova materie nuove da studiare, insegnanti nuovi, amici nuovi.
Amici per modo di dire.
Perché sti ragazzini hanno un’età stupida, credono di essere grandi e si prendono gioco di Lorenzo.
Lui, timido, con i suoi occhiali spessi, con tutto il carico di fastidi sulla schiena, non ha nessuna reazione ai dispetti che gli fanno i suoi compagni, gli strappano le pagine dei quaderni, gli prendono la merenda dallo zaino, fuori dalla scuola lo aspettano in quattro o cinque e lo spintonano fino a farlo cadere a terra.
“Alzati da lì!” gli grida Francesco (il più cattivo della scuola! Un asino di prima categoria, è la terza volta che fà la prima). “Non sei nemmeno capace a stare in piedi!” e con una risata maligna e la sigaretta in bocca: “Oggi ti sei preso quattro in geografia, vai a casa a studiare fesso!”
Eh, da che pulpito viene la predica!
Lorenzo ingoia il boccone amaro senza tirar fuori una lacrima.
Ma in realtà Lorenzo non ha grosse difficoltà a scuola, nonostante che mamma Teresa non possa aiutarlo a studiare, ci sono due bambini più piccoli da accudire, e l’uomo di casa se la cava comunque bene con gli studi.
La sua materia preferita è musica, perché lui con la musica è cresciuto.
Mamma Teresa, tutte le sere, ora d’andare a dormire, accendeva lo stereo mettendo un disco di musica classica, che faceva da sottofondo alle storie e le filastrocche che lei raccontava ai suoi bimbi, coricati tutti insieme nel letto matrimoiniale.
Quante volte sono rimasti tutti quattro addormentati con la musica di Mozart o Bach che li accompagnava nei loro sogni mentre Luciano vagava per l’Europa.
E nella testa di Lorenzo la musica ha affondato le radici.
Sua nonna gli aveva regalato un piano per la prima comunione e Lorenzo toccava quei tasti bianchi e neri con una delicatezza e un garbo che facevano pensare alle doti di un musicista molto in gamba.
Ma a scuola fanno suonare il flauto e non il piano.
E Lorenzo non ha nessuna difficoltà a far scorrere le sue dita lungo la canna dello strumento, tanto che il professore gli fa sempre i complimenti per il suo modo di suonare.
Ma questo dà molto fastidio ai suoi compagni, soprattutto a Francesco che invece suona con un disgusto da pelle d’oca, facendo fischiare il flauto senza garbo, da staccarti le orecchie.
Lorenzo prova graziosamente a correggerlo: “Soffia più piano, mettici un briciolo di passione e di cuore nel suono.” E Francesco: “Fatti gli affari tuoi asino! Questo è uno strumento di merda, non serve a niente soffiare dentro sto tubo” e intanto, con la solita cattiveria, gli tira un calcio in una caviglia.
Gli anni passano e Lorenzo ha ormai compiuto ventitrè anni ed è diventato un musicista professionista, si è diplomato di pianoforte al conservatorio ed ha migliorato la sua tecnica con dei corsi di perfezionamento.
Ma il suo scopo non è quello di tenere concerti in giro per il mondo o di diventare famoso.
Lui vuole usare la musica per far stare meglio la gente, usarla come cura per le persone in difficoltà, come lui era stato aiutato in quelle notti passate a sentire sua mamma piangere di nascosto mentre accarezzava i suoi bimbi accompagnata dalle note di un valzer viennese o da un concerto per violino e pianoforte.
Così Lorenzo riesce a realizzare il suo sogno, quello di insegnare la musica a chi ha bisogno di dimenticare il passato, a quelli che hanno bisogno di liberarsi dai tormenti: Lorenzo va ad insegnare la musica in prigione ai carcerati.
Sarà una combinazione, sarà che il destino vuole che i due si incontrassero a distanza di anni, ma Lorenzo un giorno, entrando in una cella del carcere, si trova davanti quel bastardo di Francesco.
I due si riconoscono subito, Francesco non riesce a credere che Lorenzo sia lì con lui dietro quelle sbarre ad insegnargli musica, viceversa Lorenzo sapeva bene di trovare Francesco in quell’ambiente malsano, perché sapeva che il suo vecchio compagno di scuola aveva rubato, smerciato droga e violentato una ragazza all’esterno dell’università, per la quale stava scontando la pena.
Lorenzo si siede su quella panca di legno con le tarme che faceva da poltrona nella cella e tira fuori da una valigia una pianola elettrica e inizia a suonare Mozart davanti a Francesco.
Poi gli dice: “Ti ho portato un regalo” e da quella valigia tira fuori un flauto, quel flauto che si suonava alle medie e lo offre a Francesco. “Ti ricordi come si fà? Suona!” gli dice.
E Francesco soffia da disperato come ai tempi della scuola. “No, no, dolcemente! Ti ricordi quando ti dicevo di soffiare piano, con garbo, con il cuore e tu mi prendevi a calci nelle caviglie? Pensa di soffiare sul fiore di un girasole dei prati, quelli che in primavera fanno la palla bianca con i piumini, soffia delicatamente e le note che usciranno dal flauto saranno come il polline del girasole, si spargeranno nell’aria liberi e sereni”.
Francesco soffia nuovamente nel flauto, con più garbo e le note iniziano ad uscire pulite.
Lorenzo gli bisbiglia in un orecchio: “Chiudi gli occhi e pensa alle note che volano nell’aria, verso la libertà…”
Francesco chiude gli occhi e suona il flauto come mai aveva fatto ai tempi della scuola, e mentre le sue dita scorrono ordinate sui buchi della canna del flauto dai suoi occhi scendono copiosamente delle lacrime e le note volano leggere nella prigione, come una poesia, come il polline del girasole.
Lorenzo ha saputo donare la libertà della mente, per alleviare le pene, per dare la libertà a quelle anime e a quei corpi che la libertà non l’hanno più.

Una vicenda che si potrebbe quasi definire moralistica e che si affida alla musica come strumento non solo educativo, ma anche di redenzione per chi non è riuscito a trovare una collocazione onesta nella vita. Utilizzando in modo abbastanza corretto, salvo qualche imprecisione e italianismo, la lingua piemontese l’autore ci propone quella che potrebbe anche essere una vicenda autobiografica

2°Premio “la carabin-a steyr-daimler” di Luigi Ceresa da Novara
Questa targa è stata offerta dal ristorante Li Causi di Camerano Casasco

LA CARABINA STEYR-DAIMLER
On bòt dòpo disnà.
I sòn dimparmì, setà al tàval sul pogieu dël ristorant: i vardi l’aqua dël fium ch’la scora giò dasi dasi, sensa romor; on sotaquin a l’improvis al fà ’n lusc, al scomparissa për n’eternità, peu al vegna fòra pussè lontan cont ona sgarapla int ël bèch.
I sòn fai che finì on bòn mangiarin: pisslin an brusch, on paniscin, trota a la morné, frità cont ij loartisi, insalada dë laciughin, chèga, on bonèt.
I buti giò l’ùltim bicer dë vin insì bòn che a béval as pòda pu morì.
I paghi. I sòrti. Sota ij fòji dij pubji la front la senta ël respir leger dl’ombrìa frèsca, coma quand as va denta on bosch dë pin.
Igh hò ancora n’ora dë temp për andà a spass su la riva int on silensi tanto profond ch’al vosa pussè fòrt dla disperassiôn; peu i ’ndarò al pontèl cont ël Massacaval, in cità, ai trè ori dla bassora.
Tri bòt dòpo disnà.
Quand che ’l Massacaval (na pèrtiga d’òman, con la barba mal fai, négar mè në scorbasc) l’eva rivà int ël sit fissà, al gh’eva ancora mia ninsun. A s’heva fermà, l’eva sbassà giò ël finestrin, l’eva viscà na scigala.
On quai minut e na màchina s’heva fai renta la soa; ël guidador l’eva duverdù la portiera, agh heva slongà on pach e na busta e, parlanda sot vos, l’eva dì madomà trè paròli: “Sfargùjagh ël cheur!”.
Lu agh heva schiscià l’eucc cont on soris sbefard e l’eva ’ndai via.
Quatr’ori.
I torni a cà. Ij gelosii i hin sarà sù a luto. I vischi la lum.
Agh è ’ncora na quai ora dë spicià; peu col ch’a m’ha impegnà për dij mes al gnarà a la fin; i sarò disliberà. I vò con la ment al temp indrera. Da tròpi ani lu a më stà suj bali; mi i la sopòrti pu, igh n’hò ’sè dë sentil, dë védal, dë capì ij sò penser.
Am fà gnì nervos ël tòn dla sò vos, la sò manera dë fà, la sò anda.
L’antipatìa s’ha fai sémpar pussè fòrta. Am dà fastidi, am fà schivi.
Adèss i senti denta dë mi eudi, gnent’àltar che eudi. I sôn pià na decisiôn, e la decisiôn la poda vess madomà vuna; agh è mia dij altri maneri, solussiòn divèrsi: agh và massal, tiral via për sémpar d’la facia dla tèra!
Ma la grana l’è come: l’arma mi igh l’hò, ma ël coragg dë fàl, nò!
Insì i sòn fai na pensada: i sòn cercà on massa-gent a pagament.
Trovà na persona sicura, decisa a massà l’è mia stai fàcil, ma a la fin i l’hò incontrà: i la ciàman “ël Massacaval”.
Quatr’ori e mèsa.
’Pena tornà a cà, ël Massacaval l’eva ’ndai in cusina: agh eva na ribolgia, tut pin dë ratatoja. L’eva fai spassi sul tàval. A s’heva miss on para dë guant dë seda negra për mia lassà impronti. L’eva duverdù sùbit la busta; cont j’eucc lusent l’eva tirà fòra on pach dë feuj da cent. Con calma a j’heva cuntà meténdaj vun su l’àltar: i évan desmila euro coma d’acòrdi.
L’eva miss ij danè denta la busta; l’eva spostà l’armoar dla stansa, l’eva tirà sù na piastrèla, l’eva nascondù int ël beugg la busta e a l’eva sarà sù.
L’eva pià ël pach in man e pian pianin a l’heva disfà e l’eva tirà fòra na carabina: na Steyr-Daimler.
Sul calcio agh eva scolpì la tèsta d’on ëstambèch. Ël canocial l’eva ’n Svarowsky 8x56. Int ël caricator dò palòtoli Winchester 270. N’arma meravigliosa, tegnù a la perfessiôn.
A s’heva fregà ij man sodisfai.
Cinch ori dla bassora.
I pensi ancora ël mes passà, quand i sòn vist për la prima vòlta ël Massacaval, në stropasciuch, on pò margniflà, ma scàltar e grintos. A parlagh insèma l’eva mia në spatusciôn, on mochisia o on pagnòch. L’eva cognossù për vess on malament dë man ladina.
Am heva piasù sùbit; l’eva mia on pèrda-temp ma na persona imbotonà.
Quand i sevi imbastì ël discors e i sevi incomincià a lisciagh ël pel, lu l’eva mia menà ’l toròn, ma l’eva capì al vol l’antìfona e l’eva ’ndai sùbit a parlà dël pagament dël servissi: ël prèstit dl’arma dë dovrà, desmila euro d’acunt, quarantamila a ròbi finì.
Cinch e mèsa dla bassora.
Ël Massacaval l’eva miss na camisa grisa e dsora në scaldacheur verd. L’eva pià dal cassèt na busta ch’l’eva ricevù dë sotbanch dò smani prima quand i sévan fai ël pat; denta agh eva na fotografìa: on òm setà su na Vèspa; adòss on giachitôn bleu, a l’altèssa dël cheur on gròss ëstèma giald; su la tèsta on caschèt bianch con dò listi larghi e rossi ch’i formàvan na cros.
A l’heva guardà për on pò, peu a l’heva fai a tochetin e a l’heva butà int ël cèss: as doveva mia lassà dij pisti.
Al saveva che tuti ij vènar int ij vòt ori dla sera, sto tissio a ’ndava a ’n quart d’ora d’la cità int on sit su la riva dël fium për ved se l’aqua l’eva bona për andà a pescà ël di adrera.
La smana prima lu l’eva andai a fà la pòsta su l’altra sponda; l’heva vist rivà a cent, cent e vint métar dë distansa. Al sarìa stai on tir sicur, on gieugh da fiolin massal; fòrsi ël lavor pussè fàcil dë tuti cuj ch’l’eva fai int la sò vita.
Ses ori dla bassora.
I sôn ancora setà su la poltrona; i tegni int ona man on bicerin dë grapa, con l’altra na fotografìa dël Massacaval; dadrera agh è scrivù: malnat, baltrascan ma mia gabulista, tirador ch’al sbaglia mai, straordinari ’sassin. I la pògi in bèla vista sul tavlin. I sôn emossionà.
Ses ori e mèsa.
Ël Massacaval l’eva sortì da cà. Al doveva rivà sul pòst për temp, lassà la màchina lontan; peu, atravèrs ël bosch, al sarìa rivà su la sponda dël fium int ël pòst giust. L’eva giamò preparà on nascondili cont ij rami dë rubina.
Su l’altra riva agh eva n’ariaseu e lì a finiva ël stradin doa a sarìa compars ël bersali.
Sèt ori dla sera.
Man man ch’al vegna l’orari giust, im senti pussè nervos; ij pulsassiôn is fàn fòrti e spèssi; am vegna ’dòss na badalôn. Masarà, i fò on cafè marochin.
On penser, trè paròli i martèlan int la mè ment: “Sfargùjagh ël cheur! Sfargùjagh ël cheur!”.
Sèt e vint dla sera.
Ël Massacaval al gatona denta ël nascondili; as mèta ij guant dë seda negra; al tira fòra la carabina; a la carga e la pògia su na forscèla d’oniscia.
Na nebièta la vegna sù dal fium e së spantega për la campagna dë torna.
“Mej: – al pensa – la nèbia la smòrsa ël trôn dël colp; l’è pussè difìcil capì da ’ndoa l’è ch’al vegna. E peu agh è mia problema dë vista; con sto canocial-chì as pòda tirà na s-cioptà anca dë nòcc, cont on ragg dë luna”.
Ël batacheur al crèssa moment për moment. Coma ël caciador che, anca s’l’è massà na quantità dë cravarin, cèrv o cinghial, tuti ij vòlti ch’al specia on selvàtigh l’è sémpar emossionà.
Al pròva a pià la mira su ’n sass, na rama, na fòja dl’altra riva dël fium.
“Na canonà, i sfargujarò ël sò cheur!”.
Sèt ori e mèsa dë sera.
I vegni sù dë colp. L’è ora. As torna pu indrera suj santé dël temp. “Sfargùjagh ël cheur!”.
Im dò na rinfrescada con l’aqua frègia su la facia. Tremand, i sari sù l’uss dë cà.
I vò giò int ël garasc.
“Sfargùjagh ël cheur!”.
Im vestissi cont ël giachitòn bleu con a l’altèssa dël cheur on gròss ëstèma giald. I mèti su la tèsta on caschèt bianch con dò listi larghi e rossi ch’i fórman na cros.
“Sfargùjam ël cheur!”. I monti su la Vèspa, i ’nviari ël motor…
LA CARABINA STEYR-DAIMLER
Ore 13
Sono solo, seduto al tavolo sulla terrazza del ristorante: guardo l’acqua del fiume che scorre lenta e silenziosa; un tuffetto improvvisamente si immerge, scompare per secondi eterni, poi ricompare più lontano con un cobite nel becco.
Ho appena finito un pranzetto prelibato: pesciolini in agro, un risottino, trota alla mugnaia, frittatina con le cime di luppolo, valerianella in insalata, gorgonzola, un budino al cioccolato e amaretti.
Bevo l’ultimo bicchiere d’un vino talmente buono che non si può più morire.
Pago il conto. Esco. Sotto le foglie dei pioppi la fronte sente il respiro leggero dell’ombra fresca come quando si entra in una pineta.
Ho ancora un’ora di tempo per passeggiare lungo la riva in un silenzio totale che urla più forte della disperazione, poi andrò all’appuntamento col “Macellaio”, in città, alle tre del pomeriggio.
Ore 15
Quando il Macellaio (un uomo tarchiato, la barba incolta, la carnagione scura) arrivò nel posto concordato, non c’era ancora nessuno. Posteggiò, abbassò il finestrino, accese un sigaro.
Pochi minuti dopo una macchina si accostò accanto alla sua; l’autista aprì la portiera, gli diede un pacco ed una busta, mormorò solo tre parole: “Spappolagli il cuore!”.
Lui gli strizzò l’occhio con un sorriso beffardo e ripartì.
Ore 16
Rientro in casa. Le persiane sono serrate a lutto stretto. Accendo la luce.
Ci sono ancora poche ore di attesa; poi ciò che mi ha impegnato per mesi si concluderà; mi toglierò questo fastidio. Vado col pensiero agli ultimi tempi: da troppi anni lui mi sta sulle scatole, non lo sopporto più, sono stufo di sentirlo, di vederlo, di intuire ciò che pensa.
Mi innervosiscono il tono della sua voce, i suoi atteggiamenti, il suo modo di camminare.
L’antipatia è aumentata sempre di più. Provo un senso di fastidio, di ripugnanza.
Ora è odio, nient’altro che odio. Ho preso una decisione, e la decisione non può che essere una sola; non ci sono altre possibilità, altre soluzioni: bisogna ammazzarlo, eliminarlo per sempre dalla faccia della terra.
Il grosso problema però è come: l’arma l’ho, ma il coraggio per farlo no!
Così ho avuto un’idea: ho cercato un sicario.
Trovare una persona sicura, decisa ad ammazzare non è stato facile, ma alla fine l’ho incontrata: lo chiamano il “Macellaio”.
Ore 16,30
Appena rientrato a casa, il Macellaio andò in cucina: c’era una gran confusione, tutto pieno di cianfrusaglie. Fece spazio sul tavolo. Si mise un paio di guanti di seta nera per non lasciare impronte. Aprì subito la busta; con occhi lucidi estrasse un pacco di banconote da cento. Con calma le contò mettendole una sull’altra: erano diecimila euro, come pattuito.
Li rimise nella busta. Spostò l’armadio della camera da letto, sollevò una piastrella, depose la busta in una buca; richiuse.
Prese il pacco: con cautela lo aprì ed estrasse una carabina: una Steyr-Daimler.
Sul calcio era scolpita la testa di uno stambecco. L’ottica era uno Swarovschi 8x56. Nel caricatore due pallottole Winchester 270. Un’arma stupenda, tenuta in modo perfetto.
Si fregò le mani soddisfatto.
Ore 17
Ripenso al mese passato, quando incontrai per la prima volta il Macellaio: un uomo rozzo, un po’ sboccato, ma astuto e grintoso.
A parlargli insieme non era uno spaccone, né un facilone, né uno ottuso. Era noto per essere un malvivente dalla mano svelta.
Mi era piaciuto subito, non era un perditempo, ma una persona riservata.
Quando iniziai ad intavolare il discorso e a lusingarlo, non tergiversò, ma capì al volo il problema e andò subito a parlare del pagamento per la prestazione: il prestito dell’arma da utilizzare, diecimila euro come acconto, quarantamila a cose fatte.
Ore 17,30
Il Macellaio indossò una camicia grigia e sopra un panciotto verde. Prese dal cassetto una busta che aveva ricevuto di nascosto due settimane prima quando si erano accordati; dentro c’era una fotografia: un uomo seduto su una Vespa; addosso un giaccone blu con all’altezza del cuore un grosso stemma giallo; sul capo un casco bianco con due larghe bande rosse che intersecandosi formavano una croce.
La guardò a lungo, poi la fece a pezzetti e la gettò nel gabinetto: non bisognava lasciare tracce.
Sapeva che ogni venerdì sera alle ore venti, questo sconosciuto arrivava, a quindici minuti dalla città, in un posto sulla riva del fiume per valutare se l’acqua era propizia per andare a pescare il giorno successivo.
La settimana prima era andato ad appostarsi sulla riva di fronte; l’aveva visto arrivare a cento, centoventi metri di distanza. Sarebbe stato un tiro sicuro, un gioco da ragazzi ammazzarlo: forse il lavoro più facile tra quelli che aveva fatto in vita sua.
Ore 18
Sono ancora seduto in poltrona; in una mano un bicchierino di grappa, nell’altra una fotografia del Macellaio; dietro c’è scritto: brutto ceffo, individuo losco ma non un imbroglione, sparatore infallibile, assassino perfetto. La appoggio sul tavolino in bella evidenza. Sono molto emozionato.
Ore 18,30
Il Macellaio uscì di casa. Doveva trovarsi sul posto in tempo, lasciare la macchina lontano; poi, attraverso il bosco, sarebbe arrivato sulla riva del fiume nel punto giusto. Aveva già preparato un nascondiglio con rami d’acacia.
Sull’altra sponda c’era una piccola radura in cui terminava la stradina dove sarebbe arrivato il bersaglio.
Ore 19
Più si avvicina l’ora stabilita, più mi sento agitato; le pulsazioni si fanno più forti e frequenti; mi prende un senso di malessere. Madido di sudore, mi faccio un caffè macchiato.
Un pensiero, tre parole si ripetono con ossessione nella mia mente: “Spappolagli il cuore! Spappolagli il cuore!”
Ore 19,15
Il Macellaio gattona nel nascondiglio; si mette i guanti di seta nera; estrae la carabina; la carica e la appoggia su una forcella di ontano.
Una nebbiolina si alza dal fiume invadendo la campagna circostante.
“Meglio - pensa -: la nebbia attutisce il tuono dello sparo, è più difficile capirne la provenienza, e poi non ci sono problemi di vista; con quell’ottica si può sparare anche di notte con un raggio di luna”.
I battiti del suo cuore aumentano ogni momento. Come un cacciatore che pur avendo ucciso decine di caprioli, di cervi o cinghiali, ogni volta che aspetta una nuova preda è sempre emozionato.
Prova a prendere la mira su un sasso, un ramo, una foglia dall’altra parte del fiume.
“Perfetto! Gli spappolerò il cuore!”.
Ore 19,30
Mi alzo di scatto. È ora. Non si torna indietro sui sentieri del tempo. “Spappolagli il cuore!”. Mi rinfresco la faccia con acqua fredda. Tremando chiudo la porta di casa. Scendo nel garage.
“Spappolagli il cuore!”.
Indosso la casacca blu con un grosso stemma giallo all’altezza del cuore. Metto in testa un casco bianco con due larghe bande rosse che intersecandosi formano una croce.
“Spappolami il cuore!”.
Salgo sulla Vespa, avvio il motore…

Con uno stile del tutto particolare l’autore ci porta per mano a vivere un azione che a tutta prima sembra criminale, ma poi si rivela, nel finale a sorpresa, con un esito del tutto imprevedibile e forse con una spiegazione non immediata.
Questa è la dimostrazione che chi ha dimestichezza con la scrittura può impegnarsi su tematiche e stili fuori dagli schemi, anche utilizzando una parlata abbastanza ostica come il novarese.
Il risultato è tuttavia una narrazione intrigante e coinvolgente.

1°) Class “na scura sèira ’d pieuva” di Luigi Lorenzo Vaira Da Sommariva del Bosco (Cn)
Na scura sèira ʼd pieuva.

A l’era na sèira ʼd vàire ani ʼndaré, na sèira coma tante d’àutre, Dunis, Nigi për j’amis, n’òm pì nen giovo, ma ch’a podìa ʼncor manch, o mej, ch’a vorìa ʼncor nen, definisse vej, combin che ij tanti sagrin ch’a-j peisavo sël cheur coma pere da mulin a lo fèisso smijé vàire pì anans con j’ani, a l’avìa decidù ëd prové quaicòs ëd fòravìa për dëstrae soa ment da l’amèra realtà ëd coj di. Già… dëstrae la ment a peul esse bel fé për quàich moment, ma col òm a l’avrìa avù dabzògn ëd dësmentié bon-a part ëd soa esistensa e trové na passion ch’a podèissa ampinìe ij pensé, ch’a podèissa torna deje la veuja d’angagesse për avèj quàich sodisfassion se nen pròpi pijesse n’arvangia con la vita. Dòp ëd tanti ani passà a s-ciapesse la schin-a con tuti ij travaj possìbij anmaginàbij, dòp d’avèj fàit tut lòn ch’a podìa për garantì a soa famija, se nen ël lusso solament la traquilità econòmica ch’a l’avrìa përmëttù ai fieuj d’andé a scòla e dventé mèdich, ël prim, e ingegné lë scond, consentend cò a soa fomna ëd frequenté na scòla seral për finì jë studi dla madurità, Nigi a l’era trovasse ʼnt la situassion d’esse soens umilià dai famijar ch’a mancavo mai ʼd feje peisé soa scarsa coltura. Chiel, a sò temp, a l’avìa mach pen-a fàit ij tre ani dl’aviament përché le medie a j’ero destinà a chi ch’a podìa andé anans e soa famija a l’era nen basta rica da pagheje jë studi. Ël fot ëd Nigi për nen avèj avù l’ocasion ʼd diplomesse a l’era stàit lòn ch’a l’avìa cissalo a fé tanti sacrifissi për garantì a soe masnà n’avnì meno faticos ëd col ch’a l’era tocaje a chiel e ʼl fàit d’esse cojonà, pròpi da lor, a lo rusiava da drinta. Për gionteje ʼd fer a la ciòca soa fomna a l’era ʼncaplinasse da bin d’un blagheur montagnin che d’invern a-j mostrava a sghijé ai foresté ch’a rivavo da la Liguria e ch’a disìa d’avèj la passion ëd la literatura. As capiss che nen essend frustà dal travaj col merlo a podìa pro passé ’l temp a fé ʼl gadan con le fomne dj’àutri, ma che la soa a fussa fasse ciapé ’nt ël grip ëd col lasaron a l’era stàita la massà che a Nigi a l’avìa daje ʼl colp ëd grassia… Trant ani ʼd vita a j’ero sgrunasse come na pan-a ëd melia e a chiel a-j restavo mach ëd rimpiant e la veuja ʼd campesse an Tane. Donca cola sèira, pròpi mach për ten-e soa ment ampegnà con quaicòs ëd diferent Nigi a l’era lassasse tiré ’nt un salon anté che, lesend lòn ch’a nunsiavo ij manifest pendù ’nt le giojere dij negòssi, a sarìa staje la prima lession d’un cors ëd piemontèis. Un cors ëd piemontèis për un coma chiel, che nen mach a lo parlava pì che bin, ma che a l’avìa fin-a mostràilo a coj doi farinej dij sò fieuj, fasend-se magara rije apress da la fomna e da la madòna, a smijava na drolarìa, però, an efet, parlé la lenga dij vej sensa esse bon a scrivla a l’era nen pròpi ʼl màssim e për col motiv, magara stasend setà ʼnt j’ùltime file, ël protagonista ’d nòstra conta a l’era fasse l’idèja ʼd podèj amprende quaicòs.
La pòrta ʼd vèder ch’a dasìa ʼnt l’andor dël salon ëd le conferense a l’era tapissà con vàire manifest amplacà ʼmbelelì për cissé la gent a pijé part a un baron ëd cors diferent, ma col ch’a anteressava a Nigi a-i era pì nen përché la pieuva fòrta ch’a calava dal dì prima a l’avìa s-ciancalo, mach col-lì, coma se fin-a ’l destin a l’avèissa vorsù buté ij baston an tra le roe a col proget. Con la man ampontajà a la manoja, squasi con la tëmma ëd fé ij pòchi pass ch’a l’avrìo nopà portalo a dé n’àutr andi a soa vita, Nigi a l’era, ëd bòt an blan, trovasse a giuté na bela madamin che, marsa ëd pieuva e carià ëd borse, pachèt e parapieuva dësversà, a vorìa intré, pì për ëscaudesse na frisa che për d’àutri motiv.
«Cos a na pensa chiel – a l’avìa dije la fomna – i podoma ʼndé al sùit?».
Për l’òm, dòp j’ùltim sagrin patì ʼnt ëcà, cola ʼd fé ʼl brilant con le fomne a l’era pròpi nen soa esigensa pì spressanta e donca, con un sempi gest ëd la man, coma për gavesse ʼl capel, Nigi a l’avìa duvertà la pòrta a cola madamin e cujì un dij pachèt ch’a l’era drocaje sël marciapé.
La sala conferense a l’era na rassa ëd salon dël cine, con le cadreghe dë vlù fissà s-ciasse al paviment
e na longa tàula scrivòira da ʼnté che ij relator a l’avrìo fàit soa lession. Le pòche përson-e ch’a j’ero rivà për pijé part al cors, spatarand-se an sa e ʼn là, coma s’a l’avèisso gena ʼd setesse un-a dacant a l’àutra, a dasìo l’impression che cola prima sèira a sarìa stàita tut àutr che na granda riussìa.
J’organisator a seguitavo a vardè vers la pòrta ʼnt la speransa che quàidun d’ àutr a rivèissa për giontesse ai pòchi anlev, ma al la fin, con un pòch ëd fot a j’ero contentasse ʼd cole vint përson-e ch’a j’ero lì già da un bel pòch ëd temp.
Ël badò ʼd presenté ʼl cors a l’era tocaje a un fieul giovo, n’assessor ëd la comun-a pen-a rivà a n’incàrich tanto prestigios e che, pròpi chiel, a l’avìa possà l’aministrassion a fé cole lession. Tute le sèire dël cors, des an tut, a j’ero ʼnt le man ëd doi magìster dont nì Nigi, nì j’àutri anlev a l’avìo mai sentune parlé, ma che l’assesor a l’avìa presentà coma ij mej sla piassa për soa matèria. Finalment da la prima fila ’d cadreghe un monsù bastansa giovo, motobin elegant con n’andi squasi da prèive, a l’era avzinasse a l’assessor pijand la paròla:
«Bon-a sèira a tuti e bin evnù. Che piasì për mi vëdde tanta bela gent ch’a-j veul bin a nòstra lenga».
Salacad l’intrudussion a l’era sèmper la midema ʼn tute soe lession përché dì che an cola sala a-i fusso vint përsone, miraco a l’era già n’esagerassion, però ʼl soris, la manera ʼd fé, ël deuit e la passion che col òm a dimostrava parland ëd soa materia a l’avìa ʼmbajà tuti ij present. Pòch për vòlta, un apress a l’àutr, bele sensa ciameje, tuti j’anlev a j’ero avzinasse al relator e cola ch’a l’era ancaminà coma na lession motobin seriosa, a l’avìa pijà l’andi ëd na vijà an tra d’ amis anté che minca përsona a portava un pòch ëd soa esperiensa. A l’improvis tuti j’anlev ëd col prim cors as sentìo gropà da la goj d’amprende ’l pì possìbil rësguard al piemontèis. Dino, Parèj a së s-ciamava ël pì vej, a l’era portasse da ca un lìber ëd poesìe scrite da Nino Costa e da già ch’a l’era ʼl sol ch’a fussa già bon a lese la lenga dij sò grand, a l’avìa otnù ʼl përmess ëd recitene un-a an minca lession. Ël magìster Jermin, a l’era stàit bin content che an mes a col cit ëstrup d’anlev completament a digiun ëd piemontèis ëscrit a-i na fussa comensa un già bastansa degordì ʼnt ël leslo, përchè, coma ch’a-j disìa sèmper un sò vej professor:
«Se da minca cors i fusso bon a fé seurte na përson-a ch’a portèissa anans con passion nòstra lenga i podrìo esse già pì che sodisfàit, belavans mè car, i peuss garantite ch’a sarà nen parèj».
Cole paròle a sonavo ant la testa ʼd Nigi coma na dësfida e la veuja ’d fé front a un badò tanto gròss a lo cissava nen pòch. A diferensa dj’àutri cambrada chiel a parlava, a pensava e a sognava fin-a an piemontèis dal di ch’a l’era nassù, donca a sarìa mach tratasse d’amprende a dësbrojesse ʼn tra le règole dla gramàtica, combin ch’a fussa nen un travaj sempi. Ij fieuj ëd Nigi a conossìo bin almanch tre lenghe strangere a pr’un e donca s’a l’é ver che lë stele a ven-o dai such anche chiel a l’avrìa avù bon-e possibilità d’amprend-ne una, sensa conté ch’as tratava pròpi ’d cola nostran-a.
«I deuv dive na ròba – a l’era stàit l’avertiment dël magìster – da costa sèira i sareve pì nen bon a lese un tilèt o ʼl nòm d’un vin o l’ansëgna ʼd n’òsto, scrita an piemontèis, sensa ciameve s’a-i sio d’eror. A l’é un dij prim segn che la maladìa dël piemontèis a l’haʼnfetave e për adess as na conòss ancor nen la cura».
Mai gnun avertiment a l’era stàit pì adat. Apress ëd la prima lession ëd gramàtica tuti j’anlev ëd cola scòla a j’ero tacasse a controlé qualsëssìa scrita an piemontèis sercand ëd capì se j’acent a fusso virà da la part giusta opurament se ij verb a l’avèisso sò përnòm dacant. A l’era coma se ʼd bòt an blan tuti ij partecipant al cors a fusso dventà d’espert an lenga piemontèisa, un pò coma ch’a càpita ai tifos dël balon che mach vardand la partìa as sento tuti alenador con ël përmess ëd dì un baron ëd drolarìe.
Nigi a l’avìa spetà an tuta la sman-a apress ch’a rivèissa torna l’ora ëd pijé part a la sconda lession përché ch’a l’era curios ëd capì se l’àutr magìster, col ch’a ciamavo “ël professor”, a fussa bon a ancantelo con le paròle a la midema manera ëd sò colega Jermin.
An efet la sconda lession a l’era stàita fin-a pì ʼnciarmanta che la prima, “ël professor” a l’era n’òm pì nen vàire giovo, motobin distint ant ël portament, ma dzortut an-namorà ʼd soa materia e bon a fela apresié a coj ch’a lo scotavo; soa spiegassion a scorìa lesta, sensa gnun antrap e bela ʼd capì. Na particolarità dj’òm ëd cultura a l’é pròpi cola ʼd savèj dì ʼd ròbe ʼmportante con paròle sempie e col professor, costumà a parlé con jë student universitari, a savìa pì che bin coma ten-e viva l’atension, sensa conté che essend fin-a un bel òm, stilos, sèmper bin butà, a ʼnteressava tant, ma pròpi tant… disoma la part feminin dj’anlev.
Për Nigi ël randevó con la lession ëd piemontèis, da na vòlta ʼnt l’àutra, a dventava sèmper pì amportant, minca vòlta a ʼmprendìa quaicòs ëd neuv e milanta domande a l’avrìa vorsù fé a coj magìster, ma as n’ancalava manch a lese cole quatr righe an pùblich quand ch’a tocava a chiel ëd prové. L’esse stàit sbërfià për tanti ani, an càusa ëd soa scarsa istrussion a l’avìa mortificalo a na mira che a l’era convinciusse d’esse bon a gnente d’àutr che mach travajé a la Fiat o ʼnt ij camp. Për boneur però nen tuti a pensavo cola midema ròba: la madamin, marsa ëd pieuva e carià ʼd pachèt, ch’a l’avìa conossù la sèira dla prima lession a l’era dventà soa avzin-a fissa ’d cadrega e chila, ancorzind-se che Nigi a smijava ’mprende cola lenga antica mej che j’àutri, a lo cissava a scrive quaicòs da lese apress ëdnans a tuti. Che stran-a ch’a l’é la vita – a pensava Nigi daspërchiel– costa madamin sensa manch savèj gnente ʼd mi a l’ha fiusa ch’i peussa fé bela figura mentre che, nompà, a ca mia coj ch’am conòsso da sèmper a pianto mai lì ʼd grigneme apress. Miraco a l’era pròpi la goj d’arvangia ch’a possava col monsù a sté bin atent a le spiegassion dij magìster, sossì i lo savroma mai, comsessìa le des lession a passavo leste coma ʼd lòsne. Minca sèira dòp ëd doe ore dë spiegassion tant ël magìster che ʼl professor a podìo nen fé artorn a soe ca tante a j’ero ʼncora le domande che ij partecipant a col cors a vorìo feje an privà. Ël temp a disposission a bastava mai o magara la gena ʼd fé savèj a j’àutri ij dubit ch’a-j virolavo për la ment a portava j’anlev a vorèj parlé da soj con j’insegnant. Le madame a podìo esse anche cissà da d’àutri argoment, ma j’òm a dovìo për forsa avèj mach gòj d’amprende da bin ël piemotèis e ʼn tra ʼd lor Nigi a l’era col ch’a l’avìa pijà ël coragi a doe man e scrit na curta poesìa consignand-la peui al magìster Jermin për tant ch’a podèissa valutene la gramàtica. Cole pòche righe a goernavo tuti ij sò sfòrs, prima ʼd poseje sla tàula scrivòira dl’insegnat, Nigi a l’avìa lesuje pì che sent vòlte e vàire coression a j’ero stàite necessarie për deje ʼl coragi ʼd ciamé na valutassion. Ël vocabolari comprà, dë sconda man, al mercà dle pùles a l’era già bastansa frust për sò cont, ma dòp doi mèis d’arserche frenétiche a l’era dësblasse dël tut ant le man ëd col òm. J’aspetative a jʼero àute, considerand l’impegn e jë sfòrs fàit për ëscrive na poesìa ch’a l’avèissa na frisa ʼd sens, donca a peul esse bel fé ’nmaginesse la delusion ʼd Nigi vardand tute le rigasse rosse trassà da Jermin ʼnsima a sò componiment. An bon-a sostansa squasi tute le paròle a l’avìo n’eror, magara nen gròss, nen vàire amportant, ma a-i ero, e lòn-lì a l’era stàit un gròss dëspiasì për l’amprendiss ëscritor piemontèis, tutun ant l’istess temp a l’avìa daje la carìa për dimostré a chiel e a j’àutri ch’ a podìa fé ʼd mej.
Coma ch’a l’era stàit nunsià dal vej magister ëd Jermin squasi tuti j’anlev ëd col cors a l’avìo chità ëd prové a scrive an soa lenga antica, però Nigi, pì nen avend ël sagrin ëd deje da ment a soa fomna, ch’a l’era fasse l’idèja, ma mach l’idèja, ëd pijé la residensa da sò amis montagnin, a l’avìa seguità a studié për sò cont comprand e lesend tut lòn ch’a-j capitava ʼnt le man.
L’ocasion për torna scontré un dij doi ansignant a l’era presentasse, vers la fin ëd l’otonn, ant un pàis nen tan an fòra da Turin andova ch’as fasìa la premiassion d’un concors ëd leteratura piemontèisa. Ansima a col palch Jermin nen mach a fasìa part ëd la giurìa, ma a l’era adritura ʼl president e Nigi, an mes al pùblich, as sentìa fier che pròpi col monsù a l’avèissa daje le prime drite. An tra ʼd chiel a l’era fasse l’idèja che sò magìster, con tuta la gent ch’a fasìa passé ʼnt ij tanti cors, a fussa dësmentiasse ’d chiel, nompà quand che jë sguard ëd coj doi òm a j’ero ʼncrosiasse Jermin a l’era andaje ’nver per salutelo e ciameje s’a l’avèissa bandonà lë studi dël piemontèis coma tuti j’àutri. Pì che na conversassion a l’era stàit në scambi dë sguard con dontré paròle campà lì, an mes a l’ambërbojada ʼd tuta cola gent, tutun col ancontr a l’avìa fàit piasì a tuti doi e ʼndrinta ʼd chiel, a Nigi, a l’era vnuje ʼl desideri ʼd pijé part coma concorent a un ʼd coj concors, magara un nen tant amportant, meno conossù, andova che gnun a l’avrìa grignaje tròp apress s’a fussa fasse na bruta figura.
La giornà a l’era ʼndàita anans finind con ij giùdes ch’a lesìo ij componiment ch’a j’ero piassasse ai primi pòst. Nigi a l’era rendusse cont ëd vàire che coj ëscritor a fusso an gamba, un dzortut ch’a smijava esse costumà a vagné, stand a lòn ch’a disìa la gent, a l’avìa scrit na conta ch’a së s-ciamava “Mës-cé l’euli con l’asil”. As tratava ’d na vera ciadeuvra për coma ch’a dëscrivìa ij leu e le përson-e, donca col monsù, ch’a-j disìo Tòni, a smijava pròpi l’esempi da imité.
Doi ani ʼd preuve, dë studi fàit për sò cont, vàire tentativ ëd buté ʼnsem un quàich componiment nen pròpi brut e a la fin, combin che la gena ʼd fé na bruta figura a fussa tanta, Nigi a l’avìa mandà na poesìa pròpi al midem concors anté ch’a l’era stàita premià la bela conta ʼd monsù Tòni; tut sossì naturalment sensa dì gnente a gnun për nen esse pijà për bala.
La vita ëd Nigi da la sèira ʼd cola prima lession l’era cambià motobin: an sël travaj a l’avìa otnù na promossion ch’a lo tnisìa tant pì ampegnà con la ment fasend-je nen pensé tròp a soe “sodifassion” an famija, ma an compens a l’era stàit bon a fé ʼd bele amicissie con d’àutra gent che coma chiel a coltivava la passion për la lenga piemontèisa.
La telefonada dj’organisador dël concors a l’era rivà ʼmprovisa ʼnt na matin ëd luj:
«Car Monsù Dunis i l’oma ʼl piasì d’anvitelo a la premiassion a la metà dë stèmber e i l’avrìo pròpi dabzògn ch’a fussa dij nòstri».
Ij doi mèis apress a j’ero passà tanquij, ma ʼl di dla premiassion, na frisa ʼd baticheur a fasìa tramblé le gambe ʼd Nigi che trovand-se an col salon, për pura combinassion a l’era setasse pròpi dacant al famos monsù Tòni, pront coma sèmper a ritiré sò premi për na neuva conta. La serimònia a l’era ancaminà con ij dëscors dj’autorità, ch’a parlavo nen an piemontèis, giusta për fé capì vàire ch’a-j anteressava l’rgoment, ma da lì a un moment la madama ch’a nunsiava la classìfica, apress dël nom ëd chi a l’avìa avù na mension a l’era tacasse a ciamè ij vincitor. Al ters pòst a l’era piassasse na fomna motobin an piòta, ëdcò chila costumà a esse premià, ël prim coma ch’as anmaginavo tuti a l’era ʼndàit a Tòni, ma la vera sorprèisa a l’era stàit lë scond premi consegnà a un che, prima ʼd col moment, gnun a savìa chi ch’a fussa: Nigi.
Ël prim a complimentesse con sò vej anlev a l’era stàit pròpi ʼl magìster Jermin, seguì da Tòni content ëd vëdde na facia neuva, ma la sorprèisa pì agradìa a l’era rivà dal fond ëd la sala andoa che cola midema madamin scontrà, marsa ʼd pieuva, la prima sèira dël cors, a-j batìa le man contenta coma, o forsi ʼd pì, che s’a l’avèisso premià chila.
Adess, squasi coma s’i contèisso ʼl final ʼd na bela fàula i podoma dì che Nigi e la madamin, scontrà dnans a la scòla ʼd piemontèis, a vivo alégher ansem da vàire ani e minca di a manco mai ʼd ringrassié ël cel për col ancontr ëd fortun-a fàit ’nt na scura sèira ʼd pieuva.
Una scura sera di pioggia.

Era una sera dell’anno 2019, una sera come tante altre. Dionisio, Nigi per gli amici, un uomo non più giovane, ma che non poteva neanche, o non voleva ancora, definirsi vecchio, sebbene le molte preoccupazioni che gli pesavano sul cuore come una macina da mulino lo facessero apparire molto più avanti con gli anni, decise di provare qualcosa che lo distraesse dall’amara realtà di quei giorni. Già… distrarre la mente può essere fattibile per un istante, ma quell’uomo avrebbe avuto bisogno di scordare una buona parte della propria esistenza e trovarsi una passione che potesse riempigli i pensieri, che potesse ridargli la voglia di impegnarsi per ottenere qualche soddisfazione se non proprio prendersi una rivincita con la vita. Dopo tanti anni trascorsi a spaccarsi la schiena con tutti i lavori possibili, dopo aver fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per garantire alla famiglia, se non il lusso almeno la tranquillità economica che consentisse ai figli di andare a scuola e diventare medico, il primo, e ingegnere il secondo, consentendo anche alla moglie di frequentare una scuola serale per conseguire la maturità, Nigi si era trovato nella situazione di venire spesso umiliato dai familiari che gli facevano pesare la sua scarsa cultura. Lui a suo tempo era appena riuscito a frequentare la scuola dell’avviamento al lavoro poiché le medie erano destinate a chi aveva la possibilità di proseguire negli studi mentre la sua famiglia non era in grado di finanziargli altri anni a scuola. Il rammarico di Dionisio per non aver avuto l’occasione di diplomarsi era stato la molla che lo aveva spinto a fare tanti sacrifici per garantire ai propri figli un avvenire meno faticoso di quello che era toccato a lui e il fatto di essere sbeffeggiato, proprio da loro, lo rodeva da dentro. Per rincarare la dose sua mogie si era invaghita per bene di un borioso montanaro che nella stagione invernale faceva il maestro di sci ai turisti liguri e che sosteneva di avere una sfrenata passione per la letteratura. Certo che non dovendosi logorare con il troppo lavoro quel bellimbusto poteva passare il suo tempo a corteggiare le donne altrui, ma che proprio la sua fosse caduta nella trappola di quel lazzarone era stata la mazzata che aveva dato a Nigi il colpo di grazia… trent’anni di vita gli si erano sgretolati tra le mani come una pannocchia di granturco lasciandogli solamente rimpianti e una gran voglia di buttarsi nel Tanaro. Dunque quella sera, al solo scopo di tenere la mente impegnata, Nigi si era lasciato attirare in un salone in cui, stando ai manifesti affissi nelle varie vetrine dei negozi, si sarebbe tenuta la prima lezione di un corso di piemontese. Un corso di piemontese per uno come lui, che non solo lo parlava più che bene, ma che lo aveva addirittura insegnato ai figli, facendosi deridere da moglie e suocera, sembrava una sciocchezza, però, in effetti, parlare la lingua degli avi senza essere in grado di scriverla non era il massimo e quindi, per quel motivo, magari sedendosi nelle ultime file, il protagonista della nostra storia si era convinto di poter apprendere qualcosa.
La porta a vetri che introduceva nel corridoio del salone delle conferenze era tappezzata con i vari manifesti affissi lì per invogliare la gente a partecipare ad una miriade di corsi diversi, ma quello che interessava a Nigi non c’era più perché la forte pioggia che scendeva incessante da due giorni lo aveva strappato, solo quello, come se anche il destino avesse deciso di mettere i bastoni tra le ruote di quel progetto. Con la mano appoggiata alla maniglia, quasi con il timore di muovere i pochi passi che l’avrebbero portato invece a cambiare la propria vita, Nigi si era trovato d’un tratto a soccorrere una giovane donna che, fradicia di pioggia e carica di pacchi, borse e ombrello rovesciato al contrario, desiderava entrare, più per scaldarsi che per altri motivi.
«Cosa ne pensa lei – aveva detto la donna – possiamo portarci all’asciutto?».
Per l’uomo, a seguito alle ultime preoccupazioni patite in casa, quella di fare il galante con era davvero la sua esigenza primaria quindi, con un semplice gesto della mano, come per alzarsi il cappello, Nigi aprì la porta a quella signorina e le raccolse uno dei pacchi che le erano caduti sul marciapiede.
La sala delle conferenze era una specie di salone del cinema, con le sedie di velluto fissate salde al pavimento e una lunga scrivania dalla quale i relatori avrebbero fatto la loro lezione.
Le poche persone che erano arrivate per partecipare al corso, sparpagliandosi qua e là, come se avessero timore di sedersi una accanto all’altra, davano l’impressione che quella prima sera sarebbe stata tutt’altro che un successo. Gli organizzatori continuavano a guardare verso la porta nella speranza di scorgere qualcun altro che volesse aggiungersi ai pochi allievi, ma alla fine, con un po’ di rammarico si accontentarono di quelle venti persone che erano lì già da un bel po’ di tempo.
L’incarico di presentare il corso era stato affidato ad un giovane assessore del comune appena eletto ad un incarico tanto prestigioso e promotore, egli stesso, di quelle lezioni. Tutte le sere del corso, dieci in tutto, erano nelle mani di due insegnanti dei quali tanto Nigi che gli altri allievi non avevano mai sentito parlare, ma che erano stati presentati dall’assessore come i migliori per quanto riguardava la loro materia. Finalmente dalla prima fila di sedie un signore abbastanza giovane, molto elegante con un portamento quasi da sacerdote si era avvicinato all’assessore prendendo la parola:
«Buonasera a tutti e benvenuti. Che piacere per me vedere tanta bella gente che vuole bene alla nostra lingua».
Probabilmente l'introduzione era sempre la medesima in tutte le sue lezioni perché dire che in quella sala ci fossero venti persone forse era già un’esagerazione, però il sorriso, la maniera di fare, il garbo e la passione che quell'uomo dimostrava parlando della propria materia aveva ammaliato tutti i presenti. Poco per volta, uno dopo l'altro, si avvicinarono al relatore e quella iniziata come una lezione molto seriosa, proseguì come una festa tra amici in cui ogni persona portava un po' della propria esperienza. All' improvviso tutti gli allievi di quel primo corso si sentivano legati dalla gioia di apprendere il più possibile riguardo al piemontese. Dino, così si chiamava il più vecchio, aveva portato da casa un libro di poesie scritte da Nino Costa e poiché era l'unico già in grado di leggere la lingua dei suoi avi ottenne il permesso di recitarne una ad ogni lezione. Il maestro Guglielmo era stato ben contento che fra tutti quei allievi completamente a digiuno di piemontese scritto ce ne fosse almeno uno già abbastanza pratico nel leggerlo, perché, come gli diceva un suo vecchio professore:
«Se da ogni corso fossimo in grado di tirar fuori una persona che porti avanti con passione la nostra lingua potremmo essere già più che soddisfatti, purtroppo mio caro, posso però garantirti che non sarà così».
Quelle parole suonavano nella testa di Dionisio come una sfida e la voglia di far fronte ad un incarico tanto gravoso lo spronava non poco. A differenza degli altri compagni lui parlava, pensava e sognava addirittura in piemontese dal giorno stesso in cui era nato, quindi si sarebbe solamente trattato di imparare a districarsi tra le regole grammaticali, sebbene non fosse certamente una cosa semplice. I figli di Dionisio conoscevano bene almeno tre lingue straniere ciascuno e dunque, se è vero che le schegge provengono dai ceppi, anche lui avrebbe avuto buone possibilità di impararne una, senza contare che si trattava proprio di quella nostrana.
«Devo dirvi una cosa - era stato l’avvertimento del maestro - da questa sera non riuscirete più ad osservare un manifesto, una locandina, il nome di un vino o l’insegna di un ristorante, scritta in piemontese, senza chiedervi se sia priva di errori. È uno dei primi sintomi che la malattia del piemontese vi ha infettati di cui, per ora, ancora non se ne conosce la cura».
Mai nessun avvertimento fu più adatto. Dopo la prima lezione di grammatica tutti gli allievi di quella scuola avevano in effetti iniziato a controllare qualsiasi scritta in piemontese cercando di capire se gli accenti fossero inclinati dal verso giusto o se i verbi fossero accompagnati dal relativo pronome. Era come se improvvisamente tutti i partecipanti al corso fossero diventati esperti in lingua piemontese, un po’ come accade ai tifosi del calcio che limitandosi a guardare la partita si si sentono allenatori autorizzati a dire un sacco di sciocchezze.
Nigi aveva atteso tutta la settimana seguente che giungesse di nuovo l’ora di prendere parte alla seconda lezione perché era veramente curioso di capire se l’altro insegnate, quello che chiamavano “il professore” fosse in grado di affascinarlo con le parole allo stesso modo del suo collega Guglielmo. In effetti la seconda lezione era stata quasi più interessante della precedente, “il professore” era un uomo non più giovane, molto distinto nel portamento, ma soprattutto innamorato della propria materia e in grado di farsi apprezzare dagli studenti; la sua spiegazione era fluida e chiara. Una particolarità degli uomini di cultura è proprio quella di saper dire cose importanti con parole semplici e quel professore, abituato alle lezioni universitarie, sapeva molto bene come tenere viva l’attenzione; senza contare che essendo anche un bell’uomo, sempre elegante, interessava tanto, ma proprio tanto… la parte femminile della scolaresca.
Per Nigi l’appuntamento con la lezione di piemontese, di volta in volta, diventava sempre più importante, ogni volta imparava qualcosa di nuovo e migliaia di domande avrebbe voluto fare a quei maestri, ma non osava nemmeno esporsi leggendo ad alta voce quando veniva il suo turno per provarvi. L’essere stato sbeffeggiato per tanti anni, a causa della sua scarsa istruzione lo aveva mortificato a tal punto da convincerlo che non fosse in grado di fare altro se non lavorare alla Fiat o nei campi. Fortunatamente però non tutti la pensavano in quel modo: a signorina bagnata di pioggia e carica di pacchi che aveva incontrato la sera della prima lezione, era diventata sua vicina di sedia e lei, accorgendosi che Dionisio pareva apprendere quella lingua antica meglio degli altri, lo spronava a scrivere qualcosa da leggere poi di fronte a tutti gli altri. Che strana la vita- pensava Dionigi tra se stesso- questa signorina che non conosce nulla di me ha fiducia ch’io possa far bella figura mentre a casa mia coloro che mi conoscono da sempre non la smettono di canzonarmi. Forse era proprio la sete di rivincita che spingeva quel signore a prestare bene attenzione alle spiegazioni degli’ insegnanti, questo non lo sapremo mai, comunque le dieci lezioni passavano veloci come fulmini. Ogni sera dopo due ore di spiegazioni sia il maestro che il professore non potevano far ritorno alle proprie abitazioni talmente tante erano ancora le domande che gli allievi desideravano far loro in privato. Il tempo a disposizione non bastava mai o magari il timore di far conoscere agli altri i propri dubbi portava gli allievi a voler confrontarsi da soli con gli insegnanti. Le signore potevano anche essere spinte da altre motivazioni, ma gli uomini dovevano necessariamente avere a cuore il desiderio di imparare bene il Piemontese e tra loro Nigi era colui che aveva preso il coraggio a due mani componendo una corta poesia e consegnandola al maestro Guglielmo affinché ne valutasse la grammatica. Quelle poche righe custodivano tutti i suoi sforzi; prima di posarle sulla scrivania dell’insegnante Nigi le aveva lette e rilette più di cento volte e quante correzioni erano state necessarie per dargli il coraggio di chiedere una valutazione. Il vocabolario acquistato, di seconda mano, al mercato delle pulci era già abbastanza malconcio, ma dopo mesi di ricerche frenetiche si era distrutto del tutto nelle mani di quell’uomo. Le aspettative erano alte, considerando l’impegno e gli sforzi fatti per scrivere una poesia che avesse un po’ di senso, dunque è facile immaginarsi la delusione di Nigi vedendo tutte le righe rosse tracciate da Guglielmo su quel componimento. In buona sostanza quasi tutte le parole contenevano un errore, magari non importante, ma c’era, e quello era stato un grand dispiacere per l’apprendista scrittore piemontese, tuttavia allo stesso tempo gli aveva dato la carica per dimostrare a se stesso e agli altri che poteva far meglio.
Com’era stato annunciato dal vecchio insegnante di Guglielmo, quasi tutti gli allievi del corso avevano poi smesso di provare a scrivere nella loro antica lingua, però Nigi, non avendo più la preoccupazione di badare alla moglie, che si era illusa nel frattempo di prendere la residenza dall’amico montanaro, aveva seguitato a studiare per conto suo acquistando e leggendo tutto ciò che gli capitava tra le mani.
L’occasione per incontrare nuovamente uno dei due insegnanti si era presentata, verso la fine dello autunno, in un paese poco distante da Torino dove si teneva la premiazione di un concorso di letteratura piemontese. Su quel palco Guglielmo non solo faceva parte della giuria, ma ne era addirittura il presidente e Nigi, tra il pubblico, si sentiva fiero di aver ricevuto da lui le prime dritte.
Si era convinto che il suo maestro, con tutta la gente che incontrava durante le lezioni, si fosse scordato completamente di lui, ma quando gli sguardi dei due uomini si incrociarono Guglielmo gli si avvicinò per salutarlo e domandargli se anche lui avesse, come gli altri, abbandonato lo studio del piemontese più che una conversazione era stato uno scambio di sguardi con due o tre parole buttate tra il chiacchiericcio della gente, tuttavia quell’incontro aveva fatto piacere ad entrambi e a Nigi, dentro di se, era nato il desiderio di partecipare anch’egli ad uno di quei concorsi, magari uno dei meno importanti, mono noti, dove nessuno lo avrebbe deriso nel caso in avesse fatto una brutta figura.
La giornata era proseguita terminando con i giudici che leggevano i componimenti classificatisi ai primi posti. Nigi si era reso conto di macchina quanto quegli autori fossero in gamba, uno che sembrava essere abituato alla vittoria, stando a quanto diceva la gente, aveva scritto un racconto che per titolo aveva “Mischiare l’acqua con l’aceto”. Si trattava di un vero capolavoro per come vi erano descritti i luoghi e le persone, dunque quel tizio, che si chiamava Antonio, pareva proprio essere l’esempio da imitare.
Cinque anni di prove, di studi fatti per conto suo, svariati tentativi di mettere insieme un qualche componimento accettabile e alla fine, sebbene il timore di far brutta figura fosse alto, Nigi mandò una poesia proprio al medesimo concorso in cui era stato premiato il bel racconto del signor Antonio; naturalmente tutto ciò senza dire nulla a nessuno per evitare di essere canzonato.
Dalla sera della prima lezione la vita di Nigi era cambiata moltissimo: sul lavoro aveva ottenuto una promozione che lo teneva molto impegnato con la mente impedendogli di pensare troppo alle sue “soddisfazioni” familiari, ma in compenso aveva stretto delle belle amicizie con altra gente che come lui coltivava la passione per la lingua Piemontese.
La telefonata degli organizzatori del concorso era arrivata improvvisa in una mattina di luglio:
«Caro signor Dionisio abbiamo il piacere di invitarla alla premiazione a metà settembre e avremmo davvero bisogno che lei fosse presente».
I due mesi seguenti passarono tranquilli, ma il giorno della premiazione, un po’ di batticuore faceva tremare le gambe di Nigi che trovandosi in quel salone, per pura combinazione, si era seduto accanto al famoso signor Antonio, pronto come sempre a ricevere il suo premio per un nuovo racconto. La cerimonia era iniziata con il discorso da parte delle autorità intervenute, che non parlavano in piemontese dando l’idea di quanto quell’argomento gl’interessasse, ma un attimo dopo la signora che annunciava la classifica aveva iniziato a chiamare sul palco i vincitori. Al terzo posto si era piazzata donno molto brava, anch’essa abituata al podio, il primo era andato, come tutti s’immaginavano ad Antonio, ma la vera sorpresa era stato il secondo premio consegnato ad uno che, fino a quel momento, nessuno sapeva chi fosse: Nigi.
Il primo a complimentarsi con il suo vecchio allievo era stato il maestro Guglielmo, seguito dal signor Antonio, contento di vedere una faccia nuova, ma la sorpresa più gradita era arrivata dal fondo del salone dove quella medesima signorina incontrata, bagnata di pioggia, la prima sera del corso, lo applaudiva contenta come, o forse di più che se avessero premiato lei.
Adesso, quasi come se raccontassimo il finale di una bella favola, possiamo dire che Nigi e la signorina, incontrata dinnanzi alla scuola di piemontese, vivono felicemente insieme da diversi anni e non passa giorno in cui manchino di ringraziare il cielo per quel casuale incontro avvenuto in una scura sera di pioggia.

Spesso leggendo un racconto si percepisce l’invenzione che l’autore ha trasformato in una realtà plausibile e accettabile. Altre volte, più di rado, anche in mancanza di prove concrete, si sente un qualcosa di diverso e di autobiografico. Questa serata di pioggia, descritta con dovizia di particolari, trasmette anche quegli elementi immateriali come l’emozione, l’attesa, la curiosità e la voglia indomita di una rivincita di un protagonista che ora ci vuol rendere partecipi di quei momenti vissuti davvero. La conclusione della storia ci rende partecipi della gioia che lui ha provato e ce lo fa sentire vicino, amico. La scrittura è ottima come pure la scorrevolezza della lettura.
Sez. Libri
Commenti di Claudio Calzoni e Davide Ghezzo
Ogni libro partecipante a questo concorso ha i suoi buoni motivi per essere premiato, occorre però fare una selezione. La Giuria non ha mai avuto preferenze o preconcetti sulle opere presentate, e nessun particolare amore per questo o quel genere letterario.
Non si sono fatte distinzioni nemmeno tra case editrici, preferendo giudicare la facilità di lettura, il corretto uso della grammatica, lo stile personale ed espressivo del romanzo o dei racconti contenuti nel libro. Altra forma di giudizio scelta dalla giuria è stata la quantità di empatia che si raggiunge nella lettura tra l’autore, i personaggi descritti nel racconto ed il lettore. Spesso i libri pubblicati sono molto personali, scritti da autori che, pur non facendolo apposta, scrivono solo per sé stessi, o per una cerchia ristretta di conoscenti e di pubblico. Bene, abbiamo cercato di agire molto con la testa e tanto con il cuore, del resto il concorso è dedicato alla “poesia che salva la vita” (la vita interiore di ognuno di noi), quindi alla bellezza in generale, soprattutto alla bellezza dell’anima e della letteratura.

Abbiamo scelto: Tutti 4° a pari merito

4° class. “La mia terra promessa” - Francesca Rivolta - Israele
4° class. “Jona il Piccolo Astronauta” - Adriano Moruzzi - Bolzano
4°class. “Tutti i giorni davanti a me” - Enrica Mambretti - Como
4° class. " Diario di una donna in carriera” - Enrico Casartelli - Como
4° class. " Profugo – Matteo Molino - Milano
4° class. "2984 – Francesco Monti - Milano
4° class "Figli di un unico blu” - Cristina Maria Lora – da Valdagno (Vicenza)

3°Class.. “Una scimmia grande come la Fiat - Gianluca Bellassai da Torino

Esagerata avventura metropolitana, collocata nella Torino al tempo della caduta del Muro di Berlino, con al centro la strana amicizia tra un eroinomane e un contabile. La scrittura asciutta, secca, aggressiva conduce il lettore nei meandri di vite trasgressive e ossessionate, ma anche febbrili di vita ed energia.

2° clas. “La cerva in Fuga ed altri racconti - Rosario Casalone – Varese

La forma racconto è, in assoluto, quella in cui gli autori italiani (tutti e sempre) riescono a dare il meglio. Spesso molti romanzi della nostra letteratura sono racconti dilatati per riempire pagine oppure appaiono come una sorta di antologia di racconti con gli stessi protagonisti. In questo caso l’autore, pur cimentandosi con un racconto lungo che avrebbe potuto diventare un romanzo ed altri più condensati (forse i più graffianti e riusciti), ha confezionato un bel libro, carico di molte note liete. Innanzi tutto, la varietà di temi è molto interessante. Qui si passa dal noir al thriller, dalla distopia al racconto di formazione con agilità e senza troppe differenze di stile. La scrittura è accattivante e comprensibile e le azioni dei personaggi arrivano direttamente alla mente del lettore. Le vicende dei protagonisti sono studiate bene per ottenere l’effetto di una lettura allo stesso tempo divertente e intrigante, senza secondi fini o pretese moralistiche anche se nel racconto che dà il titolo all’opera risultano forse troppo dilatate. Il libro, che ha contenuti molto interessanti, è purtroppo un prodotto un po’ povero (la mancanza di un indice, la copertina non adeguata) e meriterebbe una veste più completa per essere degnamente presentato.

1° class. “Sapevo contare fino a cento -Franco Sorba – Moncalieri (To)

Ampio e ambizioso romanzo, ambientato nel mondo ecclesiastico tra il Piemonte e Roma. Il percorso narrativo si snoda tra toni thriller e vicenda di formazione, intrisa di violenza e abbandono, fino alle cupe atmosfere che affiancano sette ed entità di valenza occulta e diabolica. Pur anche nell'attualità dei drammi della pandemia e della guerra, prevale comunque un tono di ottimismo fideistico.


Premi speciali

Targa dell’assessorato alla Cultura di Asti
Per il racconto - “Nel fantastico mondo di Rocco” di Filippo Radogna da Matera
per la poesia - “Tu sei dove io sono” di Gino Iorio da Calvi Risorta (Ce)
Targa Lions –
Libro - "Il velo delle illusioni” di Giovanni Macrì -da Messina
Libro - "Senza ritorno” di Luigino e Nicoletta Vador da S. Quirino (Pn)
Targa - ASTA –
Poesia –“Voci della montagna” di Rita Graziani da Novara
Poesia – “Soliloquio” di Francesco Maria Mosconi da Ivrea

Targa offerta da - Lam–
Per il libro – “ I miei genitori” di - Maria Clara De Masi da Lecce

Targa offerta dalla dott.ssa dal Cielo della farmacia di Portacomaro Stazione
Per il libro: “Favole” Giuliano Capuzzo da Firenze

Targa offerta dal gommista Luigi La Vecchia di Portacomaro Stazione
Per la poesia. “Carulina” di Salvatore Avellino da Foligno (Pg)

 

 

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